Coronavirus

“Covid, in Lombardia si muore di più perché l’inquinamento spinge il virus”

Di Gaetano Gorgoni

La teoria che spiega la maggiore diffusione del virus in Lombardia, Minelli: «Colpa del PM 2.5 e maggiore densità della popolazione"

Esiste davvero una correlazione tra inquinamento e covid? Questo è ancora un argomento controverso e dibattuto. Il professore Mauro Minelli, uno dei responsabili nazionali della Fondazione Italiana di Medicina Personalizzata, tra i promotori di un più moderno concetto di terapia medica basata sulle specificità dei vari organismi, è convinto che la diffusione della malattia possa essere agevolata anche da alcune condizioni ambientali. La medicina individualizzata, detta anche di precisione, ha dato un grande contributo in campo oncologico e conta molto anche in questa fase pandemica. L’immunologo Mauro Minelli spiega che il pm 2.5 (molto diffuso in Lombardia) è un inquinante dell’area che agevola l’ingresso del virus nel nostro organismo. Il responsabile nazionale della Fondazione Italiana di Medicina Personalizzata tranquillizza tutti su AstraZeneca, ma spiega che è meglio fare alcune indagini sui pazienti che soffrono di determinate patologie.

Professore ci spiega come mai prima nel bergamasco e poi nel resto della Lombardia il virus abbia trovato terreno così fertile?

«Con la professoressa Mattei dell’Università dell’Aquila abbiamo documentato, in uno studio recentemente pubblicato dall’ “International Journal of Enviromental Research and Public Health”, che la prolungata esposizione dell’organismo al PM2.5, aumenta il tasso d’incidenza della Covid di 2,79 ammalati x 10.000 persone se la concentrazione di PM2.5 aumenta di un microgrammo per metro cubo d’aria, e di 1,24 ammalati x 10.000 persone se la concentrazione  di biossido d’azoto (NO2) aumenta di un microgrammo per metro cubo d’aria. Questa tesi potrebbe spiegare l’elevato tasso di contagi e mortalità da Covid-19 del Nord rispetto al Sud Italia. La ragione, insomma, per cui la Lombardia sarebbe stata così funestata dalla Covid potrebbe risiedere nel fatto che queste zone risultano essere più esposte, e in maniera cronica, ad alti livelli di PM2.5, micidiale miscela di minuscole particelle solide e liquide, molte volte più piccole di un granello di sabbia fine, che si formano grazie alla combustione di carburanti per autoveicoli e materiali di vario genere o alle emissioni di raffinerie, centrali elettriche ed impianti di riscaldamento.  Molto alta risulta peraltro, in Lombardia, la densità della popolazione, altro fattore preso in esame dalla nostra ricerca insieme con l’indice di vecchiaia e i livelli di NO2, ulteriore fattore altamente inquinante. Queste valutazioni fanno il paio con i risultati di un progetto di ricerca recentemente pubblicato da Lancet, che ha analizzato gli impatti - in termini di mortalità - dell’inquinamento atmosferico (PM2.5 e NO2) sulla salute degli abitanti di diverse città europee. In particolare, si è potuto stabilire che Brescia e Bergamo hanno il tasso di mortalità da PM2.5 più alto in Europa, e tra le prime dieci città ci sono anche Vicenza (al quarto posto) e Saronno (all’ottavo)».

Alcuni studi sono scettici sulle teorie dell’inquinamento…

«Noi abbiamo documentato un dato oggettivo con dovizia di particolari e abbiamo il conforto di una lista corposa di almeno 35 ulteriori referenze scientifiche con Impact Factor che analizzano dettagliatamente questo interessantissimo argomento. Posso concordare sullo scetticismo nel momento in cui si dovesse cavalcare la falsa notizia che possa essere l’inquinamento atmosferico genericamente inteso a determinare la minore o maggiore incidenza della Covid, visto che i veri responsabili Covid sembrano essere non banali effetti meccanici di trasporto esercitati indifferentemente da un generico fattore inquinante, ma i complessi e ben documentati effetti biochimici della prolungata esposizione degli organismi al PM2.5. Nell’infezione da SARS COV-2 la particella virale viene in contatto con la cellula della persona che sta per infettare  e, attraverso un meccanismo “chiave-serratura” dove la chiave è una proteina di superficie del virus (proteina “spike”) e la serratura è un’altra proteina sulla cellula denominata “recettore ACE2”, penetra in quest’ultima. Il PM2.5, a contatto con le vie respiratorie dell’uomo, genera una forte espressione locale di ACE2. Quindi, più continuativa nel tempo è l’esposizione al PM2.5, più alta sarà la produzione di ACE-2 generato proprio per difendere l’organismo umano. Andrebbe tutto bene se non fosse che, nello stesso tempo, la medesima proteina ACE-2 fornisce al virus la serratura più precisa per penetrare, tramite la propria “chiave”, all’interno delle cellule d’attracco, innescando tutto il processo patologico che caratterizza il quadro clinico della COVID-19. Questa, in estrema sintesi, la dinamica confermata da studi analitici perfino precedenti la comparsa della Covid».

La curva dei contagi salirà e poi scenderà in estate, quando saremo tutti più tempo all’aperto?

«Proprio alla luce di quanto già detto, continuo a chiedermi se l’estate 2021 sarà uguale all’estate 2020 a cui arrivammo dopo un lungo periodo di fermo totale visto che, tra marzo a maggio dell’anno scorso, in Italia come in gran parte del mondo si è fermato tutto. Non c’è stato traffico veicolare: auto, navi, aerei, erano tutti fermi. Si sono fermate le industrie. Il tasso di emissione dei vari inquinanti, tra i quali ovviamente anche il PM2.5 e l’NO2, è crollato come documentato dai report del programma di ricerca legato al lancio del satellite europeo CopernicusSentinel-5P. E proprio all’inizio dell’estate abbiamo avuto il crollo dei malati di Covid. Poi, dopo il lockdown, abbiamo riaperto tutto e, conseguentemente, anche i livelli di inquinamento sono tornati a crescere. Allora ci sarebbe da chiedersi: la seconda ondata è stata davvero causata solo dalla riapertura delle discoteche, delle scuole e di altri luoghi? Oppure l’incapacità di bloccare le apparentemente inarrestabili avanzate del virus, resistenti ai blocchi colorati e all’uso generalizzato di mascherine e misure di contenimento, potrebbe essere legata alla reale impossibilità di generare un abbattimento significativo dell’inquinamento, pari a quello ottenuto in occasione del primo lockdown? Sono domande che forse dovremmo porci con un minimo di motivata urgenza. D’altro canto, sarebbe più che mai necessario approfittare di un’auspicabile tregua che la diffusione di SARS CoV2 potrebbe offrirci nei prossimi mesi primaverili ed estivi per stimolare una riorganizzazione anche sul piano politico dell'assistenza e delle cure. Spingere sulle vaccinazioni è fondamentale nelle due prossime stagioni dell’anno in modo da mettere tutti al riparo in vista della nuova invernata, tempo in cui tra l’altro i virus influenzali circolano con maggiore forza d’impatto».

Le zone rosse servono a qualcosa o è meglio il lockdown più breve? Oppure è meglio convivere col virus?

«Ritorno all’argomento già affrontato nelle due precedenti risposte. Le dinamiche del contagio non si spengono con i lockdown. È un anno che altaleniamo tra blocchi parziali, blocchi totali, sfumature cromatiche oscillanti tra l’arancione e il giallino tenue, l’acqua e il fuocherello. Considerando i numeri inarrestabili dei contagi, la logica del lockdown non mi pare essere la più vincente e convincente per scongiurare l’ulteriore diffusione della pandemia: ci vuol ben altro rispetto a quello che, tutto sommato, appare come un pannicello caldo del tutto insufficiente a lenire un macro-disagio senza apparenti soluzioni. Oltretutto con l’aggravante aggiuntiva delle “varianti” che, di mese in mese, prefigurano scenari sempre più foschi. Certo i vaccini costituiscono uno strumento importantissimo grazie al quale Paesi come, ad esempio, come la Gran Bretagna o Israele sembrano uscire dal tunnel considerando il calo vertiginoso dei loro decessi e malgrado le varianti. Ma per debellare in maniera più radicale l’aggressività del virus, a mio avviso, occorre esplorare con urgenza anche altre strade e quella dell’impatto ambientale, non foss’altro perché suffragata da dati ben documentati, mi pare tra le più immediatamente percorribili. D’altro canto, anche ignorare questi aspetti e non prendere nei loro confronti alcun provvedimento può essere una scelta, e però io credo da ponderare con attenzione se potenzialmente in grado di mettere in pericolo i cittadini, soprattutto in atavica mancanza di idee alternative».

Professore, Lei sostiene che le vaccinazioni con Astrazeneca, in diversi casi, debbano essere precedute da alcuni esami: ci spiega perché?

«Chiariamo subito che bisogna vaccinarsi assolutamente, con urgenza, e che AstraZeneca è una delle armi necessarie per superare questa pandemia. Però abbiamo sempre sostenuto, fin dall’inizio di questa storia, che la Covid è patologia “sistemica” e non di un solo organo e che le vasculitie le trombosi sono incluse nel corteo sintomatologico che accompagna tale malattia. Dunque, se le vicende di questi mesi non son trascorse invano, dovremmo far tesoro delle informazioni acquisite per capire, ad esempio, se le persone colpite dai tristissimi eventi riportate in questi giorni dalle cronache non fossero già state in precedenza colpite dal SARS Cov-2, facendosi poi la malattia senza sintomi manifesti. In tal caso il vaccino potrebbe aver innescato un fenomeno immunologico, noto come “antibody-dependent enhancement”, una sorta di potenziamento dell’attività virale dipendente da anticorpi che, proprio in seguito alla vaccinazione, potrebbe esplodere la malattia invece di combatterla. Ovviamente - e lo voglio sottolineare - si tratta di ipotesi tutte da confermare. Nel frattempo, però, a mio avviso non sarebbe sbagliato riconsiderare la ridistribuzione delle differenti tipologie di vaccino attualmente disponibili tra persone che possano avere un qualche screzio nei processi coagulativi e, semmai, prevedere nei soggetti a cui sia stato somministrato un vaccino appartenente a qualcuno dei lotti poi cautelativamente sospesi, una valutazione laboratoristica dell’assetto coagulativo con specifici esami della coagulazione e del sistema del complemento. Potrebbe essere un rimedio tutto sommato semplice per mettere in tranquillità persone che in queste ore continuano anche comprensibilmente a chiedere informazioni e suggerimenti».

È plausibile una correlazione tra la morte e la vaccinazione, anche se le autorità sanitarie si sono affrettate a dire che non è provato nulla?

«Certamente non possiamo né dobbiamo abbassare i livelli di fiducia nei confronti della profilassi contro la pandemia da SARS Cov-2. Cosa non ha funzionato ce lo dirà la commissione che analizzerà le condizioni di salute delle vittime degli eventi che in questi giorni sono balzati in prima pagina. E avremo ulteriori informazioni dall’esame dei vaccini inclusi nei lotti sospesi. Solo allora potremo meglio comprendere l’eventuale legame tra vaccinazione e reazioni vascolari. Nel frattempo ciascuno di noi, per quelle che sono le proprie competenze, è chiamato a fornire le informazioni più corrette e auspicabilmente univoche relative ai casi sospetti e alla tipologia di controlli avviati, proprio nell’intento di non alienare la fiducia della gente».

Dopo le notizie del ritiro dei lotti, alcuni docenti sono entrati in fibrillazione, qualcuno ha rinunciato a presentarsi in Fiera all’ultimo minuto. Lei cosa consiglia?

«In queste circostanze io credo che la cosa più giusta sia attenersi ai dati certi di cui si è in possesso, dati che   attestano la somministrazione di decine di milioni di dosi di vaccini AstraZeneca senza significativi effetti avversi che non fossero quelli pure registrati con i vaccini a mRNA (Pfizer e Moderna). Certo la corretta comunicazione è indispensabile perché la gente possa comprendere e accettare un nuovo messaggio, tra l’altro non esattamente di segno positivo, rispetto a premesse affatto semplici e lineari soprattutto se rapportate ad un vaccino improvvisamente esteso anche alle fasce anziane della popolazione dopo essere stato inizialmente sconsigliato dai 55 anni in su. È chiaro che queste decisioni conseguono all’acquisizione di informazioni scientifiche via via più aggiornate che abilitano nuovi percorsi e aprono a nuovi scenari, ma spiegarlo ai cittadini sarebbe stato un passaggio certamente distensivo in un rapporto non di rado distonico e distante».

Quali sono gli effetti avversi di Astrazeneca?

«Il vaccino AstraZeneca è un vaccino che si pone l’obiettivo di prevenire la COVID-19 nei soggetti dai 18 anni in su. Rispetto agli altri due vaccini attualmente somministrati in Italia (Comirnaty di Pfizer e Moderna) che sono progettati con la tecnologia innovativa del frammento di  RNA messaggero virale veicolato “a bordo” di un involucro destinato poi ad essere eliminato, il vaccino Astrazeneca è composto da un adenovirus di scimpanzé incapace di replicarsi e modificato per trasportare l’informazione genetica destinata a stimolare la risposta immunitaria del ricevente verso la proteina spike del SARS-CoV-2. Non sarà mai inutile ribadire che nessuno dei componenti di questo vaccino può provocare COVID-19 e che la tecnologia del vettore virale utilizzata per la sua produzione è già stata utilizzata per prevenire altre malattie. In quanto agli effetti a lungo termine, mentre siamo in grado di distinguere in “molto comuni”, “comuni” e “non comuni” quelli immediatamente successivi alla vaccinazione, non credo siano al momento disponibili informazioni utili per prevedere eventuali effetti di lungo corso, cosa che vale anche per i vaccini a mRNA. Quel che si può affermare, per apparente paradosso, è che le attuali sospensioni di alcuni lotti non possono non far pensare all’ottimo lavoro che si sta compiendo in termini di farmacovigilanza che, beninteso, viene efficacemente attuata dagli Enti regolatori non soltanto sui vaccini ma su tutti i farmaci messi per la prima volta in commercio».

Astrazeneca è meno efficace di Pfizer? Quali sono le vere percentuali dell’efficacia?

«Le rispondo con dati ufficiali e, per questo, ritenuti i più affidabili. Il vaccino Comirnaty dell’azienda Pfizer è stato, in assoluto, il primo vaccino ad essere realizzato con la tecnica dell’RNA messaggero. Grazie a questa strategia, il sistema immunitario riceve le informazioni per intercettare e neutralizzare l’eventuale virus che dovesse contagiare il soggetto vaccinato. Somministrato con due dosi intervallate da tre settimane, ha un’efficacia superiore al 90%. Identica tecnologia è alla base del vaccino Moderna la cui efficacia, stimata al 95%, permette a 95 su 100 soggetti vaccinati di evitare la malattia o, comunque, i sintomi gravi di quest’ultima. Il vaccino Astrazeneca, invece, dimostra nell’immediatezza della prima somministrazione un’efficacia del 62% che però, col passare dei giorni, aumenta fino a raggiungere l’80% entro la dodicesima settimana, quando viene effettuato il richiamo».