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Costume
Dall'etica al costume, il virus cambia la nostra mentalità
(fonte Lapresse)

Dall'etica al costume, il virus cambia la nostra mentalità

Stiamo provando a fare del nostro meglio, come un tirare a campare. Forse è l’unica cosa, da soli, senza aiuti, che possiamo fare. Concesso… ma almeno facciamolo senza retorica.

Non diciamo come bambini e ai bambini che “andrà tutto bene”, piuttosto abbiamo il coraggio di dipingere la tristezza per il gioco che si è rotto, per il nonno che non c’è più, per gli altri diventati irraggiungibili e pericolosi.

 Non raccontiamoci che dopo “nulla sarà più come prima”, niente, tutto, tutti sono parole assolute da lesinare, da declamare con parsimonia, da balbettare solo dopo aver sperimentato che nella danza della vita, esisto io, il mio reale e concreto cambiamento, il mio fondamentale impegno, il mio costante sforzo, la qualità del mio crescere.

Non crediamo che bastino le morti di migliaia per cambiare un grammo di quel che siamo: non saremo automaticamente migliori, nemmeno peggiori, saremo con pena aggiuntiva.

Perché Il futuro non è il tempo della salvezza, non è attesa, non è speranza.

Non ci sarà un Dio, che se sufficientemente perorato, risolve i problemi nella nostra inerzia. Lui ha creato un’umanità libera a cui ha affidato l’armonia della natura perché ne avesse cura.

Anzi, se Dio parlasse vieterebbe verbi quali speriamo, auguriamoci, auspichiamo.

Il futuro è un tempo come tutti gli altri, sarà migliore se decidiamo di prenderci in mano le nostre responsabilità.

Ci stiamo proteggendo dal terremoto di emozioni che il coronavirus sta scatenando. Muti e attoniti siamo preda di muto dolore, di indifferenziato smarrimento, di sorda paura, di una sofferenza difficile da sopportare.

Ma è vera protezione? Solo chi accetta di guardare in faccia la propria paura, può dirsi forte e può consentire all’altro di fare lo stesso.

Solo così si può entrare in un processo di rielaborazione, di eliminazione, di liberazione.

Cominciamo a declinare il malessere: ebbene, ho paura di morire.

Quando mi parlavano del motto con cui i trappisti si salutano, memento mori, io pensavo che a furia di dirlo e di sentirselo dire si anestetizzassero e che l’impatto del messaggio perdesse forza sia emotiva che razionale.

In fondo tutti sappiamo che dobbiamo morire, da sempre, da quando siamo nati, ma di fatto ne rifuggiamo l’ipotesi che possa accadere anche a noi. Facciamo finta di niente e viviamo come se a noi toccasse, oltre che l’infallibilità, anche l’immortalità.

Inutilmente la realtà non smette mai di darci segnali che dovrebbero indurci alla resipiscenza.

Ricordo di un nobile signore di ottantacinque anni, mio vicino di casa. Si informava sempre quando suonava la campana. Se gli veniva detto che la campana suonava per un giovane, commentava: “eh… si muore.” Se per un anziano, si zittiva e rimaneva imbronciato tutto il giorno.

Io da mesi, ogni giorno sono stata inesorabilmente e ricorrentemente richiamata al rischio di rientrare nel numero delle statistiche dei contagiati.

Mi scatta quindi l’apprensione verso ogni piccolo segnale del mio corpo: un peregrino starnuto, uno sparuto colpo di tosse, qualche linea di febbre, forse per un mal di denti, diventano indizi pericolosi. Da scrutare, da vivere con sospetto. Quasi sto diventando un “malato immaginario”.

Ed ancora non prevedo per quanto tempo questa condizione mentale dovrà durare.

Non so neanche se quanto sia felice ora del ritorno alla vita normale sapendo che sulla mia testa pende la spada di Damocle. Sapendo di dovermi difendere da un nemico, pericoloso ma sconosciuto, quindi infido ed ingannevole.

Ho anche paura dell’altro essere umano, che bramo ma che potrebbe essere il veicolo del mio contagio.

Come cambierà, quindi mi interrogo, il mio retropensiero sulla socialità? Mi voterò alla diffidenza, al sospetto, alla chiusura? Calerò a picco nella amara solitudine assoluta che si aggiunge alla consapevolezza adulta che comunque ognuno deve essere autonomo e reggersi sulle sue gambe?

Che dire delle incertezze economiche…? Se vivrò ma morirà il mio lavoro, che farò? Se i miei risparmi si volatilizzeranno? Se vivrò ma perderò amici e parenti?

E purtroppo non sono sola ad avere questi realistici vissuti.

Inoltre la tendenza alla fuga da se stessi, dalle proprie responsabilità nei confronti degli altri, dell'ambiente che ci ospita, della storia da cui proveniamo, è sempre forte.

La logica del potere, del possesso e del saccheggio egoistico delle risorse è in agguato.

Sembra si continui a scegliere la paura, la sfiducia nei confronti degli altri, di se stessi. Che si faccia ricorso alla prevaricazione, alla manipolazione, alla mistificazione, all'esclusione, alla non condivisione, alla violenza.

Forse però una via d'uscita c’è e sta nel ricominciare tutto daccapo. Nel fare il salto di cui questo tempo ci fa vedere tutta l'urgenza. Questa serie ha voluto dare un contributo in questa direzione. Con il prossimo articolo indicherà una via maestra per vivere in modo nuovo.

Come un mantra, si sente dire in questi tempi “niente sarà come prima”. Può darsi. Di certo esprime un vissuto che trasuda di significati sottintesi, molti e alcuni sconosciuti, tutti carichi di dolore.

Come sarà? Sarà più triste, più povero, più complesso?

O solamente sarà? E noi possiamo solo pensare, questo sì! come noi vogliamo essere interiormente? Dentro?

Io rifuggo dagli assoluti. Mai, sempre, nulla mi rimandano ad un pensiero magico, al desiderio, pur legittimo, che come d’incanto ci si svegli dall’incubo e si scopra che è stato solo un brutto sogno. Questo è un giustificato pensiero infantile.

Quello che stiamo vivendo è un incubo ma non un brutto sogno. Ci troveremo domani quasi gli stessi di qualche mese fa, e magari più smarriti, più provati e disorientati. Viviamo, durante questo periodo dai confini incerti, tra un “prima” e un “dopo” che non conosciamo e non possiamo prevedere: siamo in mezzo, sospesi tra la nostalgia di un passato prossimo che rischia di diventare remoto perché troppo diverso dall’oggi e un futuro che semplice non potrà essere.

Ma qui sta la differenza: dalle prove si può uscirne piegati ma non spezzati. E questo fa la differenza tra le persone.

Per tutti, o per pochi, quelli, fortunati, questo può essere il tempo della metànoia, parola difficile forse, ma dalle mille suggestioni, come tante parole di origine greca, che parla di “cambiamento del modo di pensare”.

Il tempo, dunque, di un profondo mutamento di pensare, di sentire, di giudicare le cose. Di dare il proprio apporto al meglio e al massimo nell’interesse della collettività.

Di pensare all’etica non in terza persona come cioè un compito che attribuiamo all’altro, che esigiamo dall’altro. Ma come un valore a cui io, in prima persona, mi vincolo e a cui mi attengo: ora, in questo momento, in questa situazione, piccola o grande che sia.

E questo per il bisogno insito in ognuno di essere Humanus! Per l’orgoglio di stare al mondo in modo nobile.

Attendiamoci una sorprendente metànoia!

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