Costume
Gucci, Armina e la moda sacrificata al marketing e al politically correct
Oramai dovrebbe essere chiaro a coloro con cui dialogo, che il caso Gucci può costituire uno spunto per affrontare temi svincolati dall’attualità, ma che riguardano la visione del mondo di professionisti che hanno a che fare con la creatività, il marketing, l’immaginazione, il buon gusto e, alla fine, la cultura.
Questa pagina di Armani uscita oggi sui giornali (che ci riconcilia con lo stile, la classe, il buon gusto e pure con i canoni di una bellezza che non ha bisogno di essere spiegata) costituisce di per sé la dimostrazione che non esiste “la moda” – se non come settore – ma ne esistono le più diverse interpretazioni, che non è affatto detto rappresentino la società: avete mai visto per strada o al lavoro qualcun vestito con gli abiti delle sfilate, specie di quelle più osèe, tra cui possiamo annoverare quelle di Gucci? Peggio mi sento sentir definire gli stilisti come dei maitre à penser in grado di stabilire lo stile della società.
Pensiamoci bene, ma da Mary Quant in poi, non credono siano poi cosí tanti quelli che hanno lasciato un’impronta davvero significativa. Anche perché, se il metodo di lavoro è sempre più spesso simile a quello del direttore creativo di Gucci Alessandro Michele, ci troviamo di fronte ad uno sconclusionato bric-à-brac di frammenti di epoche e stili diversi, ad opera di chi sostiene che “Un vaso del II secolo è vivo come un vaso dell’Ikea”. Il prof. Andrea del Ponte lo ha magistralmente definito “relativismo inclusivista”. E se vogliamo poi parlare di marketing, è indubbio che si tratti di marketing della provocazione e del rumore.
Nulla che abbia a che fare con i pazzeschi abiti che nessuno mai indosserà, ma con la chiara intenzione di andare a pescare nel gregge degli adepti del politically correct pronti a farsi vibrare il petto in difesa della povera Armina presentata (sarebbe meglio dire sfruttata) come esempio di rottura degli schemi e addirittura di nuovo modello di bellezza. Gregge che al massimo si comprerà una cintura, un paio di occhiali o una maglietta firmata (temo che una borsa se la possano permettere in pochi) giusto per segnalare la loro appartenenza al disinibito club genderless di Gucci. Certamente non comprerà mai un abito di quelli fatti sfilare con sadica provocazione da Michele e dalla sua èquipe.
Per analogia, a pensarci bene, questa forma di patchwork culturale rappresenta in effetti quella parte di società che sbava per l’Intelligenza Artificiale e pure per il transumanesimo. Ignorando che il più potente dei computer può mettere insieme miliardi di dati, ma non ci potrà mai estrarre un pensiero, “non sarà mai capace di immaginare, creare qualcosa di nuovo, sognare, provare emozioni. E tantomeno avere una coscienza. Perché in un computer c’è il buio” (Federico Faggin, inventore del microchip). Quello stesso buio che occupa la mente di sedicenti creativi incapaci di attrarre l’attenzione sulla loro variopinta mercanzia senza provocare e senza fuochi d’artificio di brevissima durata.