Cronache

Coronavirus. La chiamano Wuhan d’Italia. Ma forse bastava agire prima

Antonio Amorosi

E’ tutto quello che si poteva fare? Fino a ieri si parlava di quarantena volontaria. E come distinguere il Coronavirus da una normale influenza?

Fino a ieri chiunque parlasse di quarantena obbligatoria per chi ha avuto a che fare, direttamente o indirettamente, con Wuhan in Cina era tacciato di xenofobia. Infatti buona parte della classe politica italiana sembrava più preoccupata del razzismo che di una malattia che uccide. Come se riuscissimo a fermare i virus con le buone intenzioni e non con la profilassi consigliata dai virologi.

 

E’ dai primi giorni di gennaio che anche i cinesi, inizialmente reticenti, parlano della diffusione del virus. Nonostante le rassicurazioni del governo italiano e le circolari emanate da gennaio, chiudendo il traffico aereo con la Cina, qualcosa è andato storto nei nostri protocolli di prevenzione. La mancanza di controlli certi su chiunque arrivi dall’esterno e di quarantene obbligatorie e controllate per un tempo anche limitato hanno incrinato il quadro. E la certezza della diffusione del virus in Africa, che è una vera e propria bomba sanitaria, non depongono per il meglio.

 

Oggi, ai primi contagi con i numeri che crescono, è la dimostrazione di quanto fino ad ora scritto.

Con molta esagerazione il focolaio in cui per adesso si è accertata la maggior diffusione del Coronavirus (COVID-19) in Italia, tra i Comuni di Codogno, Castiglione d’Adda, Casalpusterlengo, Fombio, Maleo, Somaglia, Bertonico, Terranova dei Passerini, Castelgerundo e San Fiorano, viene chiamato la “Wuhan d’Italia”. Non rendendosi conto che la provincia di Wuan in Cina ha 11 milioni di abitanti, una densità a chilometro quadrato quasi 4 volte la nostra, un sistema socio-culturale, un’attesa di vita, un sistema sanitario molto diversi dai nostri. Per i contagi la mortalità a Wuhan è del 2,5%. Quella nel resto del mondo di 0,5 per mille. Anche perché nella regione più colpita della Cina gli ospedali faticano a reggere il gran numero di malati.

 

Al telefono gli abitanti di Codogno e dintorni, dove è stato trovato il primo contagiato, il trentottenne dipendente della Unilever, confermano che sono chiusi in casa. Le strade restano vuote, le attività ricreative interrotte, quelle lavorative, bar e ristoranti idem anche perché di clienti non se ne vede l’ombra. 

“Siamo qua in giardino ma fino a qualche giorno fa siamo stati dal medico di famiglia”, spiega una signora. 

“Fino a ieri giravo in libertà, non pensavo a una cosa del genere”, ci spiega un uomo.

 

Ancora ieri si sono recati ovunque in provincia, principalmente a Lodi, Cremona e Piacenza, ma anche altrove, con l’inevitabile diffusione dei rapporti e le conseguenze che si possono immaginare. E’ normale. In queste ore i casi in Italia sarebbero 52 ma sono destinati a crescere. E’ stato appena registrato il primo a Torino, una persona che aveva partecipato alla maratona di Portofino, come il trentottenne di Codogno. Ci sarebbero tra i contagiati anche due medici del Pavese.

 

La preoccupazione maggiore è dovuta alla diffusione del virus tra gli addetti ai lavori, cioè i medici e gli assistenti sanitari che hanno avuto a che fare con pazienti infettati. Sia nei casi diffusi nel lodigiano che in quelli veneti, nella provincia di Padova, e piemontesi, gli agenti sanitari di primo contatto non sarebbero stati del tutto coscienti dell’infezione avvenuta e di come questa si distingua da una normale influenza. Non sono oggettivamente in grado di individuare il virus. Molti medici di base che insieme ai pronto soccorsi restano i presidi più prossimi ai cittadini, fino a ieri e da nord a sud, ci hanno confermato il quadro. Anche se è possibile in via precauzionale ma in modo sistematico adottare della misure serie per contenere il virus quando si manifestano dei possibili sintomi.

 

Questo virus può causare sintomi lievi, simil-influenzali, ma anche malattie gravi e quindi non è così semplice da distinguere da una normale influenza, con i pericoli di contagio che ne conseguono.

 

Il ministero ha diramato varie circolari per capire come comportarsi in caso di sospetti di infezioni dal Coronavirus. Chi si sente male non deve andare in ospedale ma deve contattare i numeri messi a disposizione dalle autorità e saranno i sanitari ad andare da lui, a fare il tampone. E l'Ordinanza del ministro della Salute di ieri dice che "è fatto obbligo alle Autorità sanitarie territorialmente competenti di applicare la misura della quarantena con sorveglianza attiva, per giorni 14 giorni, agli individui che abbiano avuto contatti stretti con casi confermati di malattia infettiva diffusiva COVID-19".

 

Ma la difficoltà è capire come individuare il virus. Invece è passata la moda di ridicolizzare con l’accusa di razzismo chi vuole evitarne una facile diffusione. Come è stato fatto a inizio febbraio con i governatori di Veneto, Lombardia, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige che con una lettera comune al ministero della Sanità chiedevano che i bambini in rientro dalla Cina non tornassero in classe per 14 giorni.