Cronache

Squid Game e il messaggio disumano ai bambini: intervenga la politica

di Maria Rita Parsi*

Il messaggio che si invia è disumano e privo di appello: chi fallisce muore. È l’esatto opposto di un approccio psicopedagogico che voglia dirsi sano

Sul fenomeno Squid Game continuano a interrogarsi, e a interrogarmi, giornalisti e conduttori televisivi. E, soprattutto, genitori preoccupati. Questo articolo è principalmente rivolto a loro. Cominciamo col riassumere cos’è Squid Game, ovvero il Gioco del Calamaro: una serie televisiva coreana, trasmessa sulla piattaforma digitale Netflix, che nelle prima quattro settimane di messa in onda ha raggiunto la cifra record di 142 milioni di utenti.

Protagonista della storia è Seong Gi-hun, un uomo fortemente indebitato, che insieme ad altre centinaia di disperati viene invitato a partecipare ad una competizione estrema. Le prove consistono nei classici giochi per bambini: il tiro alla fune, un due tre stella, ritagliare delle formine, etc. Per i vincitori ci sono in palio premi in denaro, chi perde viene ucciso. È un quadro che giudico, per utilizzare un eufemismo, inquietante. E per diversi motivi. Quello che balza immediatamente agli occhi è la sovrapposizione tra i passatempi che sono propri dei bambini della scuola primaria e la violenza.

Tra innocenza e morte. Trovo che sia gravissimo, come gravissimo è il fatto che al fallimento, ovvero il non superare la prova, non possa eseguire una seconda possibilità. Il messaggio che si invia è disumano e privo di appello: chi fallisce muore. È l’esatto opposto di un approccio psicopedagogico che voglia dirsi sano. Da sempre sono contraria ai voti a scuola per bambini e ragazzi, perché l’errore deve essere opportunità di crescita, non di punizione. Se le parole sono pietre, i numeri sono macigni.

Ma qui siamo ben oltre: se perdi ne va della tua vita. È solo una fiction, certo: ma un bambino dispone degli strumenti necessari per cogliere la differenza con la realtà? La risposta è necessariamente negativa, tanto più che anche per molti adulti il confine tra i due ambiti risulta labile. Mi piace citare, a tale proposito, non uno psicoterapeuta o un sociologo, ma un attore. Sto parlando di Terence Hill, che negli anni ‘70, e ancora negli anni ‘80, fu corteggiato da Hollywood per interpretare film d’azione caratterizzati da molte scene violente. Declinò le offerte e restò in Italia per girare prima con Bud Spencer, poi da solo nel ruolo di Don Matteo, film e fiction all’insegna dell’ironia e dei buoni sentimenti (e soprattutto comportamenti).