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Amore, illusioni e sogni newyorkesi nel nuovo romanzo di Claudia Durastanti

 

ClaudiaDurasanti

 

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Il 14 settembre del 2003, nell’affollata subway newyorkese, l’incontro casuale tra Mark Lowe e Chloe Gilbert si conclude a letto. E nonostante qualche giorno dopo Chloe venga ricoverata in una clinica per tentato suicidio, i ragazzi cominciano una relazione che li vede, tre anni dopo, vivere insieme, indaffarati nel tentativo di condurre una vita emancipata dal dolore. Sullo sfondo di una Brooklyn lontana dai circuiti hip, tra cliniche mentali, famiglie italoamericane, madri scrittrici ritiratesi dalle scene, casinò, amici che vogliono mettere in commercio chewing-gum organiche e bambine che ricevono pistole per il compleanno, le vicende di Mark e Chloe si alternano a quelle dei loro genitori, in un confronto tra generazioni in cui le responsabilità di traumi e dolori emergono solo in un cortocircuito sociale e culturale.

 

ClaudiaDurasanti

L'autrice - Claudia Durastanti  è nata a Brooklyn nel 1984. Il suo primo romanzo, Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra (Marsilio 2010) ha vinto il Premio Mondello Giovani, il Premio Castiglioncello Opera Prima, ed è stato finalista al Premio John Fante. Scrive su «Indieforbunnies» e sul «Mucchio», dove si occupa prevalentemente di cultura pop. Vive a Londra.

Su Affaritaliani.it le prime pagine di A Chloe, per le ragioni sbagliate
(per gentile concessione di Marsilio)

Stamattina è crollato un palazzo in città. Mark Lowe è a mensa quando sente la notizia. Uno dei suoi colleghi ha detto che sta andando tutto in pezzi, un altro che sarà stata colpa di “errori nelle fondamenta”. Mark è rimasto zitto; per lui “errori nelle fondamenta” non è più una spiegazione plausibile da cinque anni. Ognuno di loro ha una storia a proposito dell’autunno del disastro. La sua è questa: una mattina, invece di andare all’università, era salito sul tetto di uno dei magazzini che costeggiano l’East River, e da quella prospettiva Manhattan gli era sembrata solo una lunga fila di denti marci. Aveva saltato una settimana di lezioni, nella perversa convinzione che restare lassù fosse tutto quello che poteva fare per resistere. Poi un giorno, prima di abbandonare definitivamente il capannone, aveva intravisto un uomo addormentato sotto un lenzuolo. Si era avvicinato d’istinto e aveva stretto amicizia con uno dei personaggi più bizzarri che gli fosse mai capitato di incontrare. Dopo un’infelice parentesi tedesca e un’involontaria fuoriuscita dal mercato della musica indipendente, Jimmy James come- ti-pare era tornato a casa e si era trasferito sul tetto di quel magazzino trascinandosi dietro l’attrezzatura sopravvissuta alla tratta transoceanica e alle menomazioni inflitte da una corteggiatrice particolarmente vendicativa. Per ingannare il tempo, si era messo in testa di trasferire su cd le basi elettroniche che aveva composto in sei anni di carriera su musicassetta, ma nel passaggio di supporto le polveri sottili che arrivavano dalle Torri si erano depositate un po’ ovunque, interferendo con le registrazioni. Jimmy chiamami-come-ti-pare si era illuso che il suono fosse più autentico per questo. Dopo un mese aveva chiesto a Mark e ad altri amici di ascoltare quei dischi e loro si erano sdraiati sul rivestimento di catrame del tetto con le mani premute sulle cuffie per trattenere una sfilza di suoni agghiaccianti. Era stato il loro modo di brindare alla fine. Dopo cinque anni, sono tutti vivi lo stesso. Jimmy James come-ti-pare era partito senza avvisare nessuno e Mark non ci aveva più pensato, almeno fino a quando non aveva ricevuto una cartolina con un timbro postale verdastro su cui c’era scritto: Vista da qui quella storia non è mai successa. A quanto pare, un agente aveva rimediato a Jimmy un tour nei teatri di mezza Europa, dove erano tutti in attesa di un capolavoro discografico che spiegasse la fine dell’America. Mark era andato alla ricerca di qualche recensione dell’album e finalmente aveva sorriso: se qualcuno era in grado di scriverci delle canzoni sopra allora, davvero, quella storia non era mai successa. Aveva ripreso a dormire. Dopo qualche commento sull’incidente del palazzo, Mark lascia la mensa e torna in classe; nessuno dei suoi studenti è sconvolto dall’accaduto così la lezione pomeridiana scorre senza intoppi. Quando esce dalla stazione della metropolitana per rientrare a casa, il sole vendicativo su New Utrecht Avenue investe parte dei suoi problemi. Le scarpe: lacci smollati, il bianco della finta pelle è diventato grigio, poi il grigio si è scrostato ed è apparso di nuovo il bianco. Deve buttarle prima che diventino una fonte di autentico imbarazzo. La zona in cui vive, al confine tra Bensonhurst e Dyker Heights, non ha niente di eccitante e resuscita solo durante le feste di fine estate, quando i nervi dell’asfalto vengono scossi dal furore pirotecnico sino-italiano. Le abitazioni sono una successione di edifici bassi pianificati senza alcuna morale storica o intenzione del bello; sono case che hanno memoria dei turni di lavoro subiti, delle illuminazioni arancioni avvolte da una nube grassa di insetti, di chi si è svegliato presto tanti anni fa e l’unica cosa che ha trovato al di là del muro era Brooklyn. «Amiamola per quel che ci ha dato e amiamola per i figli che ce la ruberanno» diceva sempre sua nonna, quella che gli ha lasciato l’appartamento in eredità subito dopo che lui ha preso il diploma. Incapace di badare a se stessa per via dell’artrosi, la madre di suo padre si era trasferita in un ospizio per norvegesi di fede cristiana, con assistenza personalizzata ventiquattro ore su ventiquattro (tanta premura, tuttavia, non le aveva impedito di morire). L’unico commento del padre di Mark sull’ospizio che era norvegese e sulla nonna che non lo era, era stato un laconico: «Il comunitarismo, che barzelletta» (tuttora Mark non sa cosa avesse voluto dire). Ogni volta che si avvicina al suo edificio accelera il passo; non vuole che la gente che bivacca fuori dagli esercizi commerciali, dalle pompe funebri o dalle agenzie di scommesse si accorga di lui. Non vuole essere valutato o convertito; non vuole che la memoria dei turni di lavoro altrui incomba sulle sue spalle, o che qualcuno gli dica: «Ragazzo tu non sei di queste parti e non hai mai fatto niente di serio in vita tua.» Mark infila le scale per il terzo piano pensando al giorno in cui ha conosciuto Jimmy James come- ti-pare. Non ha mai risposto alla sua cartolina perché non aveva un indirizzo a cui inoltrare la posta; a dar retta alle ultime voci, era disperso nelle giungle del Sikkim dove stava lavorando a un nuovo disco. Anche se potesse raggiungerlo, cosa gli scriverebbe?

(continua in libreria)