Culture

I dj sono “le nuove rockstar”? Intervista a Lele Sacchi: "Il web ha cambiato tutto"

di Antonio Prudenzano
su Twitter: @PrudenzanoAnton

LeleSacchi

Nell’immaginario mediatico, da ormai un paio d’anni i dj (insieme ai rapper) sono le “nuove rockstar”. Nomi come David Guetta, Tiësto, Paul Oakenfold, Paul van Dyk, John Digweed, Sasha (senza dimenticare i Chemical Brothers, Fatboy Slim, Moby o Daft Punk) sono i punti di riferimento della discografia mondiale. Parliamo di vere e proprie star internazionali, ricchissime e corteggiatissime non solo dalle discoteche più importanti, ma anche dalla tv, dal cinema, dalla moda e dalla pubblicità. E anche in Italia, va detto, sono sempre di più i maghi dell’elettronica che si impongono all’estero (Benny Benassi, Marco Carola o Claudio Coccoluto, solo per citarne tre). C’è chi punta su un sound più commerciale, e chi preferisce sperimentare. Tra questi ultimi troviamo Lele Sacchi (nella foto a sinistra, ndr), punto di riferimento della scena elettronica, house e alternativa nostrana. E’ dietro ai piatti da quasi 20 anni, e dal 2000 è resident dj e direttore musicale dei Magazzini Generali di Milano; dal 2006, inoltre, è tra i responsabili del festival Elita. Non è finita: su Radio2 conduce il programma cult “In the mix”. Affaritaliani.it lo ha incontrato.

Lei suona nei club di mezzo mondo (dagli Usa alla Cina): come ha visto cambiare la figura del dj?
“Negli ultimi dieci anni il mondo dei dj e della musica elelttronica si è avvicinato sempre più a quello del pop e del rock. Soprattutto grazie al web, quella che prima era una scena che muoveva già numeri di pubblico altissimi, ma che era strutturata in modo più ‘underground’ e di nicchia tramite i propri circuiti e i propri riferimenti, si è massificata e globalizzata. Allo stesso tempo, si è persa molta della spontaneità, del senso di comunità, dell’originalità e dello spessore musicale/culturale del mondo in cui sono cresciuto negli anni ’90, e si è guadagnato in organizzazione, in percezione da parte del pubblico e dei grandi media e spesso, ma purtroppo non sempre, in professionalità”.

Ma come avete fatto a diventare “le nuove rockstar”? Cos’è cambiato nella percezione del pubblico e dei media? Qual è stata la svolta?
“Personalmente mi considero ancora un dj vecchia maniera, un vero e proprio disc jockey e non un musicista o una star. Molti dei personaggi che sono diventati ‘nuove rockstar’, in fondo sono soprattutto dei produttori/musicisti e si esibiscono spesso in performance ‘dal vivo’. Alcuni mantengono l’estetica della consolle classica del dj, ma comunque propongono al contempo uno show audiovisivo che è un derivato del classico concerto rock/pop... Va anche detto che i successi di musica ‘club’ o ‘elettronica’ sono sempre esistiti, ma si dava molta meno importanza a chi li sfornava e più al contesto: il club, la discoteca, la radio, il dj che rendeva un brano popolare. Questi erano i tramiti attorno ai quali si riconosceva la ‘club culture’. A New York, a fine anni ’70, esistevano già ‘star dj’s’ come Larry Levan: i fan della disco underground lo adoravano e lui veniva pagato molto perché riempiva, aveva il potere di rendere un disco famoso in un circuito perché lo passava in ogni set, ne remixava alcuni, ma se fosse vivo, nel circuito attuale probabilmente non sarebbe famoso come gli autori dei dischi che passava. Allora e fino a pochi anni fa era il contrario. Ora con il crollo dell’industria musicale tradizionale anche le piccole etichette o i piccoli management possono spingere le proprie produzioni sullo stesso piano dei grandi artist pop e rock attraverso il potenziale globale del web. Da una parte questo, dall'altra la possibilità di produrre grandi show visivi che suppliscono alla mancanza di impatto estetico di una vera e propra band, hanno portato alcuni dj/producer a diventare quello che sono, delle vere e proprie superstar”.

Non è politicamente corretto parlarne, ma in questo caso vale la pena: con una serata in una discoteca importante, quanto porta a casa un dj di livello internazionale?
“Ovviamente i soldi sono una materia molto delicata, come in ogni lavoro un’artista si fa pagare in rapporto al posto in cui suona, al promoter, alla città e al ritorno che quel luogo dà al suo profilo a livello promozionale. In linea di massima direi che il range che va dai mille euro di un dj internazionale con un seguito di nicchia ai centomila euro e anche più di alcuni che riempiono palazzetti. Attenzione a scandalizzarsi, però: ormai, tutto ciò che è evento pubblico rientra nella categoria ‘entertainment’. Consideriamo inoltre che nel nostro Paese si parla tantissimo di calcio sui media, ma ormai una partità media di Serie B non porta spesso più di 5mila persone allo stadio, mentre tanti eventi di musica elettronica si aggirano su quei numeri e alcuni vanno ben oltre”.

L’estate è la “stagione” della musica elettronica: da esperto, quali sono i 3 eventi italiani e i 3 eventi esteri da non perdere?
“In Italia: Dancity Festival a Foligno, il 27-28-29 giugno, musica di alto livello con artisti non scontati e legame con il territorio; Kappa Future Festival a Torino, 13-14 luglio, le superstar della techno in un luogo urbano ex-industriale molto bello; la programmazione de Le Cave e del Parco Gondar in Salento in agosto, ci passano tutti i big e anche gli artisti più d’avanguardia. All’estero: essendo già passato il Sonar, che era sicuramente il festival migliore, punterei ovviamente su Ibiza; per chi ama questa cultura è ancora la destinazione numero uno. Sull’isola vi consiglio il Sankeys, uno dei club più recenti, gestito da inglesi che puntano tutto sulla qualità musicale e non sul lato ‘circense’. Io ci suonerò il 10 e il 17 agosto. Dal lato festival ci sono gli svariati appuntamenti sull’isola di Pag e dintorni in Croazia, come il Barrakud, una delle nuove mete del turismo clubbing e festivaliero. Una piccola gemma è il Worldwide Festival a Sete in Francia dall’1 al 7 luglio, hanno messo in piedi la mia lineup preferita”.

Finora, in questo 2013, qual è stato il disco più interessante e innovativo?
“Come album direi il debutto di Mano Le Tough, ‘Changing Days’. E’ sempre bello scoprire che ci sono nuovi artisti già così bravi al primo LP. Per quanto riguarda il brano singolo, è difficile scegliere perché ne escono sempre tanti e poi non è facile definire cos'è innovativo e cosa no. Quindi vado per il remix di George Fitzgerald di ‘Beam me up’ di Close che è un brano che ti si inchioda in testa e funziona benissimo in pista”.

E veniamo alla nuove leve: tra i giovanissimi italiani, quali sono i nomi più interessanti?
“Anche qui bisognerebbe distinguere fra i produttori/musicisti e i dj’s. Quanto ai primi è indubbio che ormai dall’Italia escono una quantità di artisti di successo notevole, gli ultimi in questo ultimo anno sono stati sicuramente i Clockwork e i Tale Of Us. Poi arriveranno Hunter/Game e altri. Certo è che storicamente i confini in questo genere non hanno mai contato troppo, e ormai di molti non si conosce neanche più il luogo di provenienza”.

Pensa che la figura del dj resterà di moda ancora a lungo?
“Non credo sia una moda. Quella del dj è una figura che fa parte del music business e dell’entertainment da quasi quarant’anni. Adesso siamo in una fase in cui propone musica che finisce molto alta in classifica e in cui i grossi appuntamenti di cui è protagonista rivaleggiano con il pop e il rock per numeri e spettacolarità. Potrà flettere un pochino o ampliarsi ancora, ma cambia poco. Per fare un paragone: i cuochi esistevano già prima di Masterchef e continueranno a esistere anche dopo. Gli esseri umani posseggono un impulso naturale al ballo e a farlo in situazioni sociali e pubbliche, perciò il dj esisterà sempre”.

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