Culture
Per fare un manager ci vuole un fiore. Parola di Niccolò Branca


Come è possibile dedicarsi seriamente alla ricerca spirituale continuando a vivere una vita attiva? Come si può conciliare il silenzio dell'interiorità con il frastuono dell'azione? Dove è l'equilibrio tra l'anelito alla semplificazione e l'imperiosa richiesta di creare del reddito? Qual è la strada per rinunciare all'ego, senza per questo rinunciare all'Essere? Decidere di assumere la direzione di un'azienda è una scelta compatibile con la pratica della meditazione? Niccolò Branca sostiene che queste domande hanno una risposta concreta e a portata di mano: la soluzione è paradossale, fondere gli opposti dell'equazione mediante lo sviluppo della coscienza e dell'autoconsapevolezza. In Per fare un manager ci vuole un fiore - Come la meditazione ha cambiato me e l’azienda (in libreria per Mondadori), Branca ha il coraggio di sfidare il dogma occidentale del profitto infinito, senza sostituirlo con altri obiettivi utopici di tipo spirituale. In una società complessa come la nostra la sfida sta proprio nel riuscire ad applicare la consapevolezza, sviluppata grazie alla meditazione, per creare sì profitto ma un profitto che abbia come suo fondamento e corollario la felicità e il miglioramento delle condizioni di vita di tutte le persone coinvolte nel processo produttivo.
L'AUTORE - Niccolò Branca è presidente e amministratore delegato della holding del Gruppo Branca International S.p.A. dal 1999. A partire dai primi anni Novanta si dedica alla pratica meditativa che lo porta a integrare dimensioni umanistiche all'interno di una leadership imprenditoriale.

Su Affaritaliani.it, per gentile concessione dell'editore, i capitoli "Crisi" e "La strada creativa":
CRISI
Le vendite diminuivano quotidianamente in maniera furibonda: la gente non aveva più soldi, non poteva più comprare nulla e faceva davvero la fame. Fui testimone di scene terribili, di assalti ai supermercati da parte di persone che cercavano solo di procacciarsi cibo per i propri famigliari. Nelle strade cresceva ovunque il suono delle caceroladas, le proteste popolari effettuate con la percussione di pentole, padelle, coperchi e casseruole. Migliaia di nuovi senzatetto si trasformarono in cartoneros, frugando per le strade alla ricerca di cartone da rivendere agli impianti di riciclaggio e racimolare così il necessario alla sopravvivenza quotidiana. Era solo uno dei modi fantasiosi e disperati che la gente dovette inventarsi per far fronte a un tasso di disoccupazione che, nel 2001, aveva toccato il venticinque per cento. Una situazione davvero drammatica. Mentre l’economia collassava, un cospicuo numero di imprenditori e investitori stranieri ritirò tutto il proprio denaro dal Paese. Molte piccole e medie imprese chiusero per mancanza di capitali. Di queste, circa centoquaranta furono salvate dai loro stessi lavoratori che, trovandosi di colpo senza alcuna fonte di reddito, portarono avanti le aziende nella forma di cooperative autogestite. Anch’io ricevetti costantemente pressioni da parte di persone che mi consigliavano la chiusura, o di altre che mi invitavano a ridimensionare l’azienda. Io però pensavo: “Ridurre lo staff o addirittura chiudere, è qualcosa che sanno fare tutti. Forse, invece, la vita ci sta offrendo la splendida opportunità di metterci in gioco. Forse possiamo attingere ancora alle nostre abilità, alle incalcolabili energie di cui disponiamo, per dare una risposta efficace a questo particolare evento”. Perciò mi arrovellavo, rimuginavo, mi lambiccavo, ma non riuscivo a trovare delle soluzioni.
LA STRADA CREATIVA
Un giorno, trovando una vecchia foto tra le pagine di un libro, sprofondai nel ricordo di un Natale di molti anni prima. Mi abbandonai al gioco coinvolgente della memoria e rivissi un particolare episodio in cui io, allora ragazzino, ebbi modo di parlare con mio padre della crisi economica che stavamo vivendo in Italia. Era la fine del 1973 e nel nostro Paese le speranze di una ripresa a breve termine sembravano inghiottite dal silenzio irreale di quella domenica di dicembre senza auto, senza clacson, senza l’abituale rumore di fondo del traffico cittadino: era cominciata l’austerity. La crisi petrolifera, successiva alla guerra del Kippur, stava rivoluzionando, infatti, le abitudini degli italiani. Poiché il prezzo del petrolio era arrivato alle stelle, divenne necessario centellinare sia il prezioso oro nero sia ogni altra forma di energia. Il governo Rumor aveva allora introdotto severe misure restrittive. L’illuminazione pubblica e l’orario di apertura dei negozi furono ridotti, la chiusura dei locali pubblici fu anticipata, i programmi televisivi furono sospesi alle undici di sera, la circolazione delle automobili fu vietata nei giorni festivi e fu introdotto il provvedimento delle targhe alterne. Nel corso di quella conversazione mio padre affermò più volte che era proprio in periodi come quello che le sottomarche proliferavano, perché le persone, non avendo soldi, si rivolgevano prevalentemente a quello specifico mercato. Quel ricordo, seppure nitidissimo, era rimasto inutilizzato per molti anni, chiuso nel deposito affettivo della mia memoria. Ora, però, nel momento più opportuno, stava facendo capolino da qualche file archiviato nella mia mente, per darmi un indispensabile supporto. In quel periodo facevo spesso la spola tra Milano e Buenos Aires. Durante le attese in aeroporto mi capita spesso ancora oggi di entrare in qualche duty free dove posso dare un’occhiata a vari prodotti, prevalentemente del nostro settore, ma anche di altri. Quel giorno, mentre mi aggiravo tra gli scaffali, la mia attenzione cadde su un noto marchio di profumeria. Mentre il mio sguardo scorreva su tutte quelle piccole confezioni colorate, rilevando con curiosità la differenza tra Estratto, Eau de Cologne, Eau de Toilette, Eau de Parfum, constatai che si trattava davvero di una gamma eccezionalmente vasta di articoli. Sull’aereo, dopo qualche decina di minuti di volo, cercai di addormentarmi, ma rimasi a lungo in una condizione di dormiveglia. Forse fu a quel punto che il processo creativo si mise in moto, benché da due mesi la mia mente fosse occupata dal pensiero fisso di dover trovare una buona soluzione per l’Argentina. In quello stato di assopimento sentivo riecheggiare le parole di mio padre riguardo alla diffusione delle sottomarche nei periodi di crisi, mentre nella mente mi scorrevano le immagini di tutte quelle bottigliette di profumo che avevano lo scopo di attrarre persone con gusti e disponibilità economiche diverse. Così, a un tratto, uscii di colpo dal torpore e mi domandai: “Perché non produciamo una sottomarca, un amaro a basso prezzo? Chiunque lo faccia al nostro posto, farà un prodotto di dubbia qualità. Noi, invece, siamo distillatori di successo da più di centocinquanta anni, conosciamo esattamente quali sono, tra gli ingredienti, le radici più rare o le bacche più difficili da trovare, che fanno lievitare enormemente i prezzi. Eviteremo quelle. Non sarà sottoposto allo stesso processo di invecchiamento, sarà un amaro di pronta beva, ma sarà indubbiamente il migliore fra tutte le sottomarche”. Il pensiero di aver individuato un percorso da seguire era elettrizzante e mi aveva rinvigorito. Di solito, quando raggiungo l’albergo dopo un viaggio intercontinentale, sento il bisogno di riposarmi un poco. Invece quella volta mi buttai sotto la doccia, mi cambiai velocemente e mi recai subito in azienda. Intendevo incontrarmi con Eugenio e condividere con lui le mie riflessioni e i miei progetti. Il vecchio amministratore delegato lavorava in Branca da qualche decennio e aveva sempre partecipato con lealtà e dedizione alle vicende dell’azienda. Sentivo che con ogni probabilità era la persona più adatta con cui confrontarmi circa quell’ondata di pensieri appena nati, ma che pure reclamavano con forza una collocazione immediata nella realtà. Eugenio mi accolse con entusiasmo, senza nascondere che anche lui aveva qualcosa di molto importante da comunicarmi tanto che mi avrebbe chiesto di incontrarci al più presto se io non lo avessi anticipato recandomi il giorno stesso a Tortuguitas. Gli occhi gli brillavano mentre indicava un documento sulla sua scrivania. Tuttavia il rigore e la riservatezza dettati dalle sue origini piemontesi prevalsero e, con compostezza, mettendo da parte quei fogli, ascoltò con la consueta attenzione ciò che io avevo da dire. “Lo sai, Eugenio,” esordii entrando subito nel vivo del problema “in questi mesi ci ho pensato molto e ora mi è chiaro che sono solo tre le direzioni che da questo momento in poi potremmo seguire. La prima è l’azione aggressiva. Significa chiudere tutto e riaprire quando le cose miglioreranno. La seconda è l’azione blanda, conservativa, l’opzione più facile da scegliere.” “Già,” disse lui “è quello che si sente ogni giorno a Buenos Aires: le poche aziende che ancora non hanno chiuso, riducono il personale e tutti i costi al limite estremo, anche del cinquanta-settanta per cento, in attesa che passi la buriana. Ma, prego, continua: qual è la terza opzione?” “È la strada creativa. Ci ho pensato durante il volo, e l’intera questione mi è parsa per la prima volta in tutta la sua chiarezza. Di sicuro, in una situazione come questa, nasceranno delle sottomarche...” “Assolutamente sì, anzi sono già sul mercato, le stanno già producendo...” “E allora, perché non lo facciamo anche noi? Noi abbiamo una storia e una sapienza nel fare prodotti di qualità: possiamo sicuramente produrre una buona sottomarca per il periodo che stiamo vivendo...” “Sono del tutto d’accordo, ne abbiamo già parlato con Riccardo, il direttore commerciale: noi non solo abbiamo la capacità di farlo nel modo migliore, ma godiamo già di ottima credibilità, sia presso la distribuzione sia presso i consumatori. E poi, guarda Niccolò, ti volevo mostrare proprio questo” disse mentre recuperava i fogli messi da parte poco prima. Notai ancora quella luce nei suoi occhi, i modi entusiastici e decisi. Per un attimo, nonostante i problemi di salute che lo avevano indebolito, mi apparve pieno di energia e forse anche più giovane. Il documento riportava l’elenco dei marchi di cui la Fratelli Branca Destilerias era proprietaria. Eugenio fece scorrere velocemente il dito sul secondo foglio e mi indicò un punto preciso. “Questo è il marchio registrato di una sottomarca argentina di cui tuo nonno aveva acquisito la proprietà negli anni Quaranta. Noi poi non l’abbiamo mai messa in produzione, ma sai bene cosa significa...” “Che abbiamo già un marchio, una bottiglia, un’etichetta” mormorai con un sorriso incredulo. “Infatti. Ora quella bottiglia la dobbiamo solo riempire con un amaro di nostra produzione. Certo non sarà un prodotto eccelso, altrimenti i costi sarebbero proibitivi e non sarebbe più una sottomarca, ma sarà un buon prodotto e indubbiamente il migliore della sua categoria.” Pur separati da migliaia di chilometri e attraverso percorsi mentali differenti, sembrava proprio che io, Eugenio e Riccardo fossimo giunti contemporaneamente alle stesse conclusioni. In sintonia perfetta, non ci mettemmo molto ad accordarci sulla linea d’azione da intraprendere. A quel punto si trattava solo di far sì che Eugenio, in qualità di amministratore delegato, organizzasse la sua squadra di manager e li mettesse a parte del nuovo progetto. Finalmente rilassato, cominciai a sentire di colpo gli effetti del jet lag e decisi di andarmi a riposare un poco. Uscendo dall’azienda pensai con un sorriso al previdente acume di mio nonno, Dino Branca, a cui rivolsi mentalmente un allegro cenno di saluto. Sentivo il cuore pieno di gratitudine per come gli eventi, anche quelli più lontani e apparentemente scollegati, avevano acquisito un significato incastonandosi perfettamente tra di loro. Noi tendiamo a giudicare la realtà mentre la stiamo vivendo, tuttavia una distanza troppo ravvicinata ci può rendere ciechi. Spesso è solo il tempo a dare forma, consequenzialità e significato alle cose della vita.
(continua in libreria)