Economia

Bce, le capriole politiche di Weidmann.Ecco tutte le volte che ha detto "nein"

Luca Spoldi

Il banchiere che ora punta alla Bce si è convertito in Zona Cesarini in maniera opportunistica al quantitative easing di Mario Draghi. Chi è Jens Weidmann

In realtà Weidmann si è poi dimostrato un difensore incrollabile del mito tedesco della sacralità del binomio moneta forte-inflazione debole e proprio per questo si è più volte scontrato con Draghi. Nel dicembre 2014, ad esempio, bacchettò subito Draghi notando come l’eventuale acquisto di titoli sovrani nell’eurozona, all’epoca ancora non avviato, sarebbe stato da giudicare “diversamente che in altre aree monetarie: Usa e Giappone sono Stati unitari con un’unica politica finanziaria, in Europa abbiamo una politica monetaria comune ma con 18 stati, politiche finanziarie indipendenti e rating sui debiti sovrani ben diversi, e in questo caso si può creare un incentivo a indebitarsi di più scaricando le conseguenze sugli altri”.

Il timore di Wedimann era che “se anche un solo paese tra Italia, Francia e Germania non sarà all’altezza della propria responsabilità, avremo tutti un problema” (e non era difficile capire chi il banchiere temesse potesse non essere all’altezza tra i tre paesi citati, ndr). E a chi chiedeva espressamente che ne pensasse del possibile quantitative easing, rispondeva: “L’acquisto di titoli sovrani presenta problemi speciali in un’unione monetaria, non è uno strumento qualsiasi. E’ noto che guardo all’ipotesi con scetticismo. Prendo sul serio gli argomenti a favore di decise azioni. Ma a mio avviso la politica monetaria nell’eurozona non è giunta al punto in cui in un programma di “quantitative easing” i vantaggi sarebbero superiori ai costi”

Diplomatico ma rigido, dunque, e per fugare ogni dubbio aggiungeva: “Io sono per un’interpretazione ristretta del nostro mandato” (come Bce, ndr) anche perché “la politica europea deve essere fatta da Parlamenti e governi e la risposta ai problemi non può essere sempre dare nuovi compiti alla Bce”. Una visione che forse potrebbe tornare utile ora che molti movimenti populisti chiedono di ridurre l’indipendenza e l’ambito di azione di istituzioni “non elette” come la Bce.

Basterà a guadagnarli sufficienti simpatie per succedere a Mario Draghi e soprattutto una volta eletto basterà a evitare un irrigidimento della politica monetaria europea che molti danni rischierebbe di fare a banche ed aziende italiane? Al riguardo nonostante la “conversione” dell’ultima ora di Weidmann è legittimo esprimere qualche dubbio.

Ancora nel settembre del 2015, del resto, il banchiere tedesco sottolineava come essendosi consolidata la ripresa della congiuntura nell’area dell’euro ed essendosi “affievolite sempre più” le già “eccessive preoccupazioni deflazionistiche” dopo che era stato avviato “un programma di acquisto mai esistito prima”, la politica monetaria non avrebbe dovuto “farsi influenzare dal saliscendi dei singoli indicatori, fintantoché la valutazione politico-monetaria continua a rimanere intrinsecamente valida”. Soprattutto Weidmann (non solo lui in verità, ndr) vedeva il rischio che una politica monetaria troppo morbida provocasse “un indebolirsi della spinta riformista” provocando “un continuo differimento delle riforme”. 

E questo sarebbe stato un serio problema, perché “il flusso di denaro a buon mercato emesso dalle banche centrali non genera una crescita sostenibile e cela rischi sempre maggiori, per esempio per la stabilità finanziaria”. Nel 2016, poi, Weidmann si mise di traverso alla richiesta, caldeggiata da Draghi, di costituire un’assicurazione sui depositi a livello europeo.

(Segue...)