Economia
Boom made in Italy, ma il brand non basta più: storytelling e leader al centro
L'edizione 2021 del rapporto .trust di Lundquist evidenza i sei temi-chiave che rappresentano la punteggiatura della nuova narrazione aziendale
L'export italiano cresce, ma serve "una narrazione coerente e strutturata"
Dopo i disastri causati del Covid-19, il made in Italy è tornato a far sentire con forza la sua voce. Nel 2021 l’export è cresciuto del 18,2% sull’anno precedente e, dato ancora più significativo, del 7,5% sul 2019. Due terzi del totale sono rappresentati dalle società manifatturiere, con i settori moda e food & beverage autentici fiori all’occhiello.
Aggiungendovi l’automotive, altra tradizionale eccellenza tricolore, la società di consulenza strategica Lundquist ha realizzato l’edizione 2021 del suo rapporto .trust, analizzando 34 aziende di queste industries (metà quotate e metà no) e il loro modo di comunicare, alla luce delle nuove sfide determinate dallo scenario internazionale, che spazia dalla crisi energetica alla “great resignation”.
L’indicazione fondamentale che arriva dagli advisor di brand prestigiosi come Uefa, Generali e Intesa Sanpaolo è la necessità di un vero e proprio cambio di paradigma: “Il brand non basta più: per meritare la fiducia degli stakeholder, occorre una narrazione che valorizzi le caratteristiche distintive dell’azienda”, si legge nel report. Nel post-pandemia, i consumatori non si accontentano più di iniziative di facciata, ma vogliono fatti e dati concreti, al pari degli stakeholder istituzionali. Un elemento meritevole di riflessione è la presenza sul territorio che, lungi dal poter essere solo dichiarata, va invece incarnata in iniziative concrete, che coinvolgano anche la leadership. Agli imprenditori e ai manager è richiesto di “esprimersi in prima persona, da un lato come figure apicali facenti parte di una governance manageriale e, dall’altro, come incarnazione di una visione condivisa o, ancora meglio, di un purpose che guidi ogni azione dell’azienda”.
Mission, vision e purpose sono inglesismi sempre più diffusi nel linguaggio delle aziende, ma non è scontato che si traducono in conseguenze operative. Certamente i siti corporate li menzionano più spesso (in confronto al .trust 2020) e in particolare nel settore food & beverage la metà dei brand ne fa esplicita menzione. Tuttavia, osserva Lundquist, “la maggiore parte degli statement sono relegati al ruolo di claim, senza mostrare alcun collegamento preciso con i messaggi utilizzati nella comunicazione”.
Non si tratta di una mera finezza stilistica, ma di un dato contenutistico che incide nella percezione degli stakeholder: “Il sospetto è che siano concepiti come dichiarazioni più di facciata che di sostanza, con parole che riflettono solo in parte la vera essenza dell’azienda”. Ed essere accusati di washing - che sia preceduto da green, pink o qualunque altra parola - è quanto di più dannoso si possa ottenere dalla comunicazione, nell’era del brand-activism. “La capacità di essere credibili e coerenti sarà determinante per capire quanto le aziende siano non solo a prova di presente, ma, soprattutto, di futuro”, osservano le autrici del rapporto, Simona Ortelli e Francesca Bellizzi.
Rispetto al purpose, è indicativo che solamente un brand di livello mondiale quale Ferrero ne facesse riferimento sul proprio sito aziendale. Su questo “non abbiamo notato un passo avanti”. È tuttavia in corso un’evoluzione. Nel 2020, meno della metà dei brand del made in Italy presi in esame aveva ottenuto un punteggio sufficiente per accedere alle valutazioni finali e solo uno (Granarolo) si era qualificato tra i Best Performers.
In questa edizione, Lundquist evidenzia i sei temi-chiave che rappresentano la punteggiatura del nuovo storytelling aziendale: ruolo nella società, strategia nell’affrontare i macrotrend (dal cambiamento climatico alle difficoltà della supply-chain), innovazione e trasformazione digitale, impegni e risultati di sostenibilità, diversity & inclusion e top management and leadership, rimarcandone l’importanza sia verso l’esterno che verso l’interno dell’azienda, per dar vita a una comunicazione al contempo più sincera ed umana.
Il tema diversity & inclusion è molto sentito e il report cita sia casi di aziende quotate (Ferrari, Prada, Moncler e EssilorLuxottica) che non quotate (Barilla e Gucci) le quali stanno spingendo molto in questa direzione. Tuttavia, “D&I non è ancora una leva di business: il prossimo passo sarà quello di connetterlo alla strategia di business, definendo obiettivi concreti”.
Altrettanto attuale è la questione del climate change, emersa solo sporadicamente nel 2020, con diverse iniziative finalizzate ad aumentare la sostenibilità ambientale delle proprie attività. Lundquist cita Lavazza, Granarolo, Campari, EssilorLuxottica, Moncler, Prada, Sanlorenzo, Ferrari e Stellantis, che, con modalità molto eterogenei, stanno dimostrando attenzione al tema attraverso interventi concreti. Proprio sui cambiamenti climatici hanno preso posizione i vertici di Prada, Miuccia Prada e Patrizio Bertelli, che “con autorevolezza, competenza e carisma”, rappresentano una best practice di quel nuovo protagonismo al quale sono chiamati i capitani d’industria. Non si tratta di un caso isolato: tra le aziende prese in esame, quasi un amministratore delegato su tre ha una propria pagina su Wikipedia. La capacità dei ruoli apicali di mettersi in gioco è un elemento fondamentale, per dare vita a quella che Lundquist definisce “una narrazione aziendale coerente, che affronti in modo strutturato i tempi e le criticità”.