Economia
Carige mezza pubblica in stile Mps. La soluzione che piace a Messina&C. Rumors
La possibilità che un fondo straniero salvi la banca, ne aggiorni il modello di business e faccia concorrenza preoccupa i maggori istituti tricolori.Ecco perché
Il governo italiano sta provando ad aggirare in tutti i modi gli ostacoli che un eventuale intervento pubblico incontrerebbe in sede europea per quanto riguarda Banca Carige. Ma nonostante le ipotesi circolate, inizialmente la trasformazione delle Dta (imposte differite) in costi di ristrutturazione poi l’ulteriore estensione delle Gacs sui bond ancora da emettere da parte dell’istituto ligure da fine giugno a fine dicembre, di istituti italiani pronti a farsi avanti per recitare il ruolo di “cavaliere bianco” continua a non vedersene neppure l’ombra, come confermano ad Affaritaliani fonti finanziarie a conoscenza della vicenda.
Dl Crescita: Carige, emendamento Governo proroga garanzie Stato a fine 2019/ Prorogare fino a fine 2019 le garanzie di Stato concesse dal ministero dell'Econonia sulle emissioni obbligazionarie di Banca Carige in scadenza al 30 giugno. Lo stabilisce l'emendamento del Governo al Dl crescita depositato nelle commissioni Bilancio e Finanze della Camera |
I fondi internazionali (Apollo è tornato ad aprire il dossier dopo il passo indietro di BlackRock) sono per ora i soli ad aver valutato l’ipotesi di sedersi attorno al tavolo coi commissari straordinari per cercare un’intesa sui numeri. Intesa peraltro difficilissima, perché è apparso chiaro sin dall’inizio che nessun fondo di private equity ha interesse a rilevare e gestire una medio-piccola banca commerciale italiane. Salvo aver mano libera dai sindacati sugli esuberi (cosa quanto meno improbabile) e dalle autorità per l’adozione di un modello di banca “leggera”, focalizzata sull’online con pochissime filiali su strada per quanto riguarda le attività di “boutique finanziaria”.
Un modello che fa imbufalire i sindacati e pare preoccupare le altre banche commerciali italiane (che per ora non sono nelle condizioni di poterlo adottare), ma che probabilmente non dispiacerebbe alla Banca d’Italia, ossia alla Bce di Mario Draghi, dopo che quest’ultimo è tornato più volte ad esprimere preoccupazione per la modesta redditività degli istituti italiani. Bassa redditività a sua volta legata al modello di banca focalizzata su un margine d’interesse che costi strutturali elevati e tassi destinati a rimanere a lungo agli attuali livelli minimi riducono necessariamente ai minimi termini.

Rafforzarsi sul wealth management è stata la soluzione finora adottata dalle maggiori banche, Intesa Sanpaolo in testa, ma gestire grandi patrimoni è un’attività necessariamente “di nicchia” sia pure ricca. Attività che potrebbe seguire anche la “nuova” Banca Carige, ma questo andrebbe a far concorrenza proprio alle banche che, sottocrivendo col Fitd 320 milioni di bond tier 2 di Banca Carige a fine 2018 di fatto hanno evitato il collasso dell’istituto.
Anche per evitare evidenti conflitti d’interesse, tuttavia, né Carlo Messina né nessun altro amministratore delegato delle maggiori banche italiane è intenzionato a iniettare ulteriori capitali in Banca Carige, che pure necessita di una ricapitalizzazione per proseguire l’attività e ripulire definitivamente il portafoglio crediti.
Così l’unica strada, quella che a parole tutti vorrebbero escludere ma nei fatti pare essere la soluzione preferita da banche, sindacati e politica resterebbe quella di una ricapitalizzazione precauzionale che portasse il Tesoro al 51% del capitale di Banca Carige, garantendo al Fitd il restante 49% o poco meno, così da garantirsi di poter dire la propria sul futuro dell’istituto. Una soluzione che agli occhi dei maggiori banchieri italiani avrebbe almeno due pregi.
Da un lato ridurrebbe al minimo il rischio di una forte concorrenza dovuta all’adozione di un modello di banca innovativo che potrebbe essere adottato se prevalesse l’offerta di un fondo, dall’altro addosserebbe al settore pubblico, ossia ai contribuenti italiani, il rischio e i costi di un eventuale fallimento. Fallimento che resta un tabù sia per i sindacati, ed è comprensibile, sia per le banche concorrenti di Carige, e questo sarebbe meno comprensibile se non fosse per le ricadute potenzialmente pesanti che questo avrebbe a livello territoriale. Per chi come Intesa Sanpaolo ancora ha una forte vocazione territoriale, l’ipotesi di una “nuova” Carige leggera, plasmata sulla base di un modello che le altre banche tradizionali italiane non sono in grado e neppure sembrano voler seguire, sarebbe un incubo che si trasforma in realtà.

O forse sarebbe solo la realtà che bussa alle porte di una classe politica ed economica che ha proseguito per anni nell’attuare la politica del “tirar calci al barattolo” senza voler e saper affrontare i problemi alla radice. Problemi che sono sempre gli stessi e che si possono riassumere nella domanda: davvero vale la pena di dannarsi l’anima per “mettere in sicurezza” una banca con 15,75 miliardi di euro di crediti a fine 2018 (pari allo 0,91% dei prestiti totali del sistema bancario italiano a tale data) anziché accettare che fallisca e che qualche altro operatore ne prenda il posto?
E se sì, posto che si riuscisse a superare eventuali veti posti dalla Commissione Ue, quale sarebbe il costo massimo che andrebbe sostenuto e come dovrebbe essere ripartito per evitare che ancora una volta ai contribuenti italiani finiscano le perdite, mentre gli eventuali utili finiscano in tasca a uno o più singoli gruppi privati?
Luca Spoldi