Economia

Cina, la strategia di Trump. Il rallenty di Pechino può inguaiare l’Italia

Trump minaccia di introdurre dazi pure sui 325 mld di export cinese finora esente, sui listini i gruppi più esposti perdono quota sia a Wall Street che a Milano

Di Luca Spoldi

Donald Trump twitta: “Per 10 mesi, la Cina ha pagato le tariffe negli Stati Uniti del 25% su 50 miliardi di dollari di tecnologia avanzata e del 10% su 200 miliardi di dollari di altri beni. Questi pagamenti sono parzialmente responsabili dei nostri grandi risultati economici. Il 10% salirà al 25%  venerdì. Altri 325 miliardi di dollari ulteriori esportazioni della Cina rimangono non tassati, ma lo saranno a breve, con un tasso del 25%. Le tariffe pagate agli Stati Uniti hanno avuto un impatto minimo sul costo del prodotto, in gran parte a carico della Cina. L’accordo commerciale con la Cina continua, ma troppo lentamente, mentre tentano di rinegoziare. No!” e le borse indossano l’elmetto.

 

Quello che sembrava poco più che una formalità, l’ultimo round negoziale prima della firma di un accordo tra le due superpotenze economiche che consentisse di mandare definitivamente in soffitta il rischio di una guerra commerciale, rischia ora di saltare o quanto meno complicarsi alquanto, col vice premier cinese Liu He, a capo della delegazione cinese, che secondo la stampa cinese potrebbe partire alla volta di Washington con due o tre giorni di ritardo rispetto a quanto previsto dal programma, una reazione peraltro più contenuta rispetto all’ipotesi che la delegazione cinese annullasse il viaggio.

 

A far infuriare Trump sarebbero state oltre ai tira e molla tipici di qualsiasi negoziato, il tentativo di Pechino di sottrarsi a qualsivoglia tipo di verifica del rispetto degli accordi sottoscritti. Un tentativo che avrebbe finito con lo svuotare l’accordo stesso, col rischio che l’opposizione democratica potesse accusare il presidente di aver svenduto l’America. La reazione dei mercati, peraltro, dimostra quanto i principali gruppi sia americani sia europei siano ormai dipendenti dalle loro relazioni con Pechino.

 

Nomi come Qualcomm (65% del fatturato legato al mercato cinese), Broadcom (54%), Micron (51%), ma anche Amd (33%), Intel (24%), Apple (20%) e Nvidia (20%) sono non a caso tra i più venduti oggi, insieme ad altri big come General Motors, Ford e Boeing (che in valore assoluto è il principale esportatore americano verso la Cina). Ma se Wall Street piange, Milano non ride: l’indice Ftse Mib termina a -1,63% (dopo aver toccato un calo anche del 2% in mattinata), da un lato per lo scattare di vendite sul comparto finanziario, appesantito dal nuovo allargamento dello spread favorito dal “fly to quality” verso i Bund tedeschi, dall’altra per il deciso calo di tutti i titoli in qualche modo esposti verso la Cina.

 

Così chiudono in deciso calo da Cnh Industrial a Pirelli, da Stm (che annovera Apple tra i principali clienti) ai titoli petroliferi, questi ultimi in scia al calo del prezzo del greggio su cui pesa l’ipotesi di una nuova frenata della crescita mondiale come conseguenza di un’eventuale guerra commerciale tra Washington e Pechino (ma anche, eventualmente, tra Usa ed Europa). Non si salvano dalla debacle i titoli del lusso, i cui prodotti sono molto apprezzati sia in Cina sia dai turisti cinesi in visita in Italia, come Salvatore Ferragamo e Moncler. O gruppi industriali grandi e piccoli, da Brembo a Clabo, che in questi anni hanno aperto impianti in Cina vedendo rapidamente crescere i loro affari in Asia.

 

Insomma: anche se a molti sembra la “consueta” tattica negoziale, molto decisa, di Trump e che nulla sia realmente compromesso, tanto più che a perderci maggiormente in prima battuta sarebbe proprio Pechino, la frenata improvvisa di quella che sembrava ormai una trattativa in discesa rischia di inguaiare anche l’Italia, proprio ora che si parla di una nuova correzione al ribasso delle stime di crescita del “bel paese” elaborate dalla Ue.

 

Una minaccia doppia perché le esportazioni sono tra le poche se non l’unica voce che continua a sostenere il Pil tricolore a fronte di una domanda interna ancora debole e di aziende che non si fidano ad incrementare gli investimenti e già sono sotto la minaccia legata al rallentamento della crescita della Germania, principale partner commerciale del settore manifatturiero italiano. Occorre dunque sperare che Pechino accetti di stabilire delle regole precise e delle penali che scatterebbero in caso di mancato rispetto degli accori.

 

Non sarà facile, ma la Cina ha come detto molto da perdere, con una crescita che continua anno dopo anno a rallentare nonostante il varo di misure di sostegno, l’ultima delle quali annunciata oggi prevede il taglio dei requisiti di riserva obbligatoria delle banche, taglio che entrerà in vigore gradualmente tra il 15 maggio e il 15 luglio prossimi, di fatto “scongelando” 41 miliardi di dollari di liquidità che andrà a sostenere la ripresa, ma non potrà compensare l’eventuale introduzione di un dazio del 25% su 325 miliardi di export verso gli Usa finora esenti da dazi. Il buon senso spinge entrambe le parti a trovare un accordo, gli investitori sperano che basti.