Economia

Clima, a Parigi le premesse per un accordo. Mappa delle posizioni in campo

di Andrea Deugeni
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Impedire che l'atmosfera media del pianeta Terra aumenti di oltre due gradi centigradi, temperatura al di là della quale si innescherebbe una dinamica quasi irreversibile. E limitare la produzione di emissioni di gas a effetto serra. Sono i due obiettivi della Cop21, la ventunesima Conference of the Parties, il summit sul clima sotto l'egida dell'Onu che riunisce i rappresentanti di 190 Paesi e 147 tra primi ministri e Capi di Stato e che si è appena aperto a Parigi, durando fino a venerdì 11 dicembre. Obiettivi ambiziosi, considerando le premesse non incoraggianti dei precedenti summit, come quello di Copenhagen del 2009 che si concluse con un fallimento delle trattative paralizzate dallo scontro fra superpotenze come America da una parte e Cindia dall'altra, mentre ll'Europa rimaneva spettatrice impotente nella battaglia dei veti (poi Durban nel 2011 adottò una piattaforma d'azione per impegnare tutti i Paesi a raggiungere un accordo vincolante anti-emissioni entro il 2015 e Lima lo scorso anno invitò tutti i Paesi a presentare piani volontari per ridurre i gas serra).

Un fallimento però non è permesso. In gioco c'è, ormai convincimento quasi unanime, la sorte del Pianeta e dell'umanità. Sembrano parole esagerate ma gli eventi climatici estremi con conseguenti disastri lo stanno dimostrando (il più evidente è stato il 2015, l'anno più caldo nella storia del Pianeta). E' una sfida senza precedenti mettere d'accordo i grandi inquinatori (Cina, Usa, India, Giappone anche se l'Indonesia potrebbe scavalcare alcune posizioni a causa dei gas emessi dagli incendi delle foreste) per salvare anche i Paesi più poveri, molto spesso vittime delle conseguenze dei cambiamenti climatici, soprattutto tifoni e inondazioni che colpiscono in particolare l'Asia (se non verranno mantenuti gli impegni sul taglio delle emissioni, il costo che i Pvs dovranno sostenere per adattarsi agli effetti dei cambiamenti climatici fino al 2050 è di 790 miliardi di dollari).

Nel concreto, sono queste le condizioni necessarie affinchè il vertice abbia successo: fissare a 1,5-2 gradi massimo l'aumento medio delle temperature entro la fine del secolo con la riduzione dal 40% al 70% delle emissioni entro il 2050, con una clausola che permetta di valutare e rivedere gli impegni ogni 5 anni; siglare un accordo globale giuridicamente vincolante; raccogliere 100 miliardi di dollari l'anno da parte dei Paesi sviluppati (provenienti da fonti pubbliche e private) per finanziare dal 2020 i Paesi più poveri per la riduzione della CO2 e l'adattamento ai cambiamenti climatici favorendo le rinnovabili.

Ma quali sono le grandi posizioni in campo con cui si apre il vertice? Eccole:
Cina
: il Paese della Grande Muraglia è di gran lunga il più grande generatore di CO2 (il sorpasso sugli Usa è avvenuto nella grande recessione del 2008). Condizione di cui è ben consapevole il presidente Xi Jinping che un anno fa nel bilaterale con il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha annunciato un ambizioso piano per la riduzione delle emissioni carboniche con l'obiettivo di fermarne la crescita entro il 2030 o prima. Anche attraverso una riconversione dell'economia made in China per migliorare gli standard di salute interna al Paese. Mentre a Pechino, si susseguono gli allarmi smog con la capitale cinese avvolta in una nuvola giallognola, con livelli di inquinamento record dell'aria (le autorità mettono in guardia la popolazione linvitandola a 'non uscire di casa'), il cambio di atteggiamento della Cina rappresenta, al contrario rispetto ai precedenti vertici sul clima, la principale premessa che induce invece all'ottimismo gli osservatori. Il motivo? Archivia l'approccio conflittuale e rivendicativo del passato, quando la leadership cinese aveva impostato le sue riforme ambientali come concessioni all'Occidente sviluppato, lesinandole in nome del fatto che i Paesi ricchi dell'altra parte del globo hanno inquinato per due secoli prima degli altri.

Stati Uniti: se la Cina è la più grande fabbrica del mondo di CO2, gli americani restano i massimi inquinatori su su base individuale: l'americano medio continua infatti a emettere tre volte più CO2 del cinese medio. Barack Obama vuole che la conferenza di Parigi sul clima diventi un segno distintivo della sua eredità politica. Così, dopo Pechino, nell'ultimo anno ha cercato di convincere molti altri Paesi (dall'India all'Indonesia), a seguire l'esempio della Cina. Ma in patria, dove il prossimo anno si andrà ad elezioni con il rischio che i Repubblicani cancellinocon un colpo di spugna, ad esempio,  tutte le norme sulle centrali elettriche che devono ridurre del 26% le emissioni entro il 2015 o rimuovano il veto posto al maxi-oleodotto con il Canada, Obama deve fronteggiare una furiosa campagna negazionista del partito dell'Elefantino sul cambiamento climatico. Campagna finanziata dalla lobby del fossile.

India: Se Cina e Usa dialogano, l'India di Narendra Modi è rimasta invece ferma sull'atteggiamento rivendicativo. Nuova Dehli è ormai la vera leader degli Emergenti che hanno perso lo smalto di qualche anno fa nel crescere e che continuano a vedere nei tagli alle emissioni e nella lotta al global warming un terreno negoziale sul quale vogliono più concessioni dai Paesi ricchi. Al centro di quella che è diventata a tutti gli effetti una diatriba fra Nord e Sud del mondo, quest'ultimo ispirato dal nazionalismo rivendicativo di Modi, c'è la scarsità di aiuti dagli Stati industrializzati per finanziare la riconversione delle economie alle energie rinnovabili: solo 100 miliardi di dollari promessi nel 2009 e neanche quelli sono stati effettivamente versati. L'India è un attore importante se si considera il fatto che da una parte ci sono i 315 milioni di americani e dall'altra 1,2 miliardi di indiani che vivono  per la maggior parte ancora al buio e per i quali l'energia meno costosa è il carbone, la più inquinante di tutti.

Unione Europea: Se l'Ue non procederà unita, dovrà cedere lo scettro di terzo attore pivot delle trattative sul clima all'India. Nello scontro fra titani, il Vecchio Continente produce solo il 9% di tutte le emissioni di CO2. Un peso minore che però è dovuto ai sette anni di crisi che, fra recessione del 2008, double dip e crisi dell'eurodebito, hanno funestato il Vecchio Continente, imprimendo un'accelerazione alla sua decrescita. Se l'Europa, così come anticipano le stime sul Pil dei prossimi anni, dovesse ritrovare la via dello sviluppo, anche le sue emissioni torneranno a salire. C'è un altro aspetto, poi, delle economie Ue da tenere presente sullo scacchiere globale delle emissioni e nella dialettica delle trattative: l'Europa ha smesso di ospitare molte produzioni manifatturiere ad alta intensità di consumo energetico. Ma ogni volta che che un consumatore del Vecchio Continente compra un prodotto made in China o made in Corea o made in Bangladesh o in Vietnam contribuisce alle emissioni carboniche che l'opulento mondo occidentale ha delocalizzato dall'altra parte del mondo, alle economie emergenti.

Il quadro è complesso, ma se i Paesi sviluppati, svincolati ormai dalla tenaglia della recessione che ne restringe i bilanci pubblici, dicono gli osservatori, riusciranno a stanziare più soldi e a far arrivare più risorse alle economie in via di sviluppo per accompagnare la loro svolta verde, l'accordo è a portata di mano. Sotto la benedizione del G2 Usa-Cina.