Economia

Corvino (Obi), la via Francigena? E' più di un museo, è la speranza del Sud

Eduardo Cagnazzi

L'economista pugliese: "Il Mezzogiorno può essere la nuova frontiera ma con un modello di sviluppo che parta dalla terra e dal territorio e porti al nuovo"

La via francigena? Non chiamatela itinerario culturale, peggio museo all’aperto. Rischiate di limitarne la portata, di banalizzarla. Essa è molto di più. Accanto ad essa, e dentro di essa, c’è molto di più.  Con molto ritardo anche nel bel Paese ci si è accorti dei grandi itinerari storico-culturali e religiosi.  In altri paesi hanno costruito intere economie intorno ad essi. La Spagna, il Portogallo, la Francia lo hanno fatto da tempo. Così l’economista salentino Antonio Corvino, direttore generale dell’Osservatorio Banche Imprese di Economia e Finanza (Obi) in un saggio su Politica meridionalista riferendosi a quanto affermato dal ministro dei Beni culturali e al Turismo, Dario Franceschini la settimana scorsa durante un convegno organizzato da Aspen e Srm (Centro studi legato al Gruppo Intesa Sanpaolo).

Corvino scrive che da sempre gli itinerari religiosi sono occasioni di crescita oltre che vie di comunicazione. Castelli e cattedrali, borghi e città, regni e uucati si sono costruiti e consolidati o disfatti lungo il loro tracciato.  “Il culto Micaelico legava l’Irlanda alla Gran Bretagna ed alla Francia per attraversare l‘Italia ed arrivare sino in Medio Oriente. Esso univa tre continenti e favoriva contatti di ogni genere.  La via Francigena partiva da Canterbury per giungere a Santa Maria di Leuca fino ad arrivare a Gerusalemme senza trascurare Bisanzio.  Intere armate di crociati l’hanno percorsa e viaggiatori di ogni tipo e di ogni dove, oltre che pellegrini e penitenti, l’hanno attraversata portando con sé ricchezze, notizie di ogni genere e per ogni uso. Insomma, i grandi itinerari religiosi non erano semplici vie di penitenza e pellegrinaggio. Erano vie di comunicazioni. Fasci di strade che si intersecavano e si intrecciavano e che portavano conoscenza e scambi, progresso sociale e sviluppo economico”. 

Il pregio di quelle vie, a cominciare della via Francigena, era che attraversavano il territorio, penetrandolo sin nel cuore più profondo.  “Esse davvero creavano unità ed integrazione nelle nazioni e tra le nazioni.  Non discriminavano tra metropoli e campagne. Tra aree costiere ed aree interne. Ogni colle ed ogni valle, ogni monte ed ogni pianura veniva raggiunta o attraversata allo stesso modo in cui si giungeva ai porti per imbarcarsi o per proseguire il viaggio da qualche altra parte. Insomma, esse non ingeneravano alcun bisogno di inventarsi politiche di riequilibrio territoriali. O addirittura la necessità di dover disegnare delle politiche ad hoc per colmare il ritardo delle cosiddette aree interne o escluse. Un’economia integrata, e sia pure caratterizzata da livelli tecnologici primordiali, era il naturale corollario dell’Europa attraversata dalle grandi vie di comunicazione da nord a sud e da est ad ovest”.

Poi, evidenzia Corvino, arrivò il progresso e la mobilità diventò frenetica. “I pellegrini presero a disdegnare il cammino a piedi e pure i cavalli e le carrozze furono accantonate. I pellegrinaggi scomparvero ed anche i conti con Dio vennero regolati in maniera più veloce e sbrigativa. La velocità prese a contare più di tutto e colli e montagne, valli e campagne, fiumi e torrenti diventarono di intralcio. Da evitare o al massimo da scavalcare. E arrivò lo sviluppo centrato sulle metropoli e sulle aree costiere, facilmente accessibili e/o raggiungibili.  Con le dovute eccezioni, s’intende.  Città che avevano presidiato interi ducati, decaddero, per non parlare dei castelli e dei borghi! Anche le Cattedrali ed i Santuari presero a languire. Il potere, compreso quello ecclesiastico   anelava anch’esso alle metropoli. Meglio se in riva al mare.  Un mondo intero crollò.  Ed anche i cammini, compresa la via Francigena finirono per scomparire. Sotto le macerie. In alcuni casi sotto i moderni nastri d’ asfalto. Grandi autostrade e porti intercontinentali, aeroporti e iper treni fecero giustizia della lentezza antica.

I castelli divennero dei ruderi, nei casi migliori dei musei.  Le cattedrali ed i santuari testimonianze andate della grandezza di dio e della passata gloria della chiesa.  Le abbazie e i monasteri furono abbandonati.  I contadi, le città turrite, i borghi, le campagne, le valli, i monti divennero sinonimi di luoghi sconosciuti.  Hic sunt leones! Più o meno.  La vita si era spostata nelle megalopoli che avevano ridimensionato anche la capacità di attrazione delle metropoli. Il mondo era diventato un villaggio globale. Anche il latte si comprava dove costava di meno! Come i maglioni ed i bulloni! Come la frutta e la verdura. E le auto!  Non c’era più bisogno della meravigliosa biodiversità! Anzi! Roba da sopravvissuti!  Il grano arrivava dalle pianure ghiacciate del Canada e il resto da tutto il mondo. Chiudere tutto, fu la parola d’ordine. Industrializzazione la nuova frontiera! E dove se non nelle aree costiere?  Porti, altiforni, aerei e treni e autostrade tutto convergeva da quelle parti! L’Europa disse a quanti si ostinavano a vivere, produrre, coltivare tra monti e valli, tra campagne e pianure che non ce n’era bisogno! E arrivarono sussidi e le campagne vennero abbandonate. I borghi si spopolarono, le aree interne divennero simbolo di sottosviluppo e arretratezza. E guarda un pò stavano tutte, o quasi, a Sud! Quel sud una volta vivificato dalle vie dei pellegrini e attraversato dagli itinerari che conducevano ad Oriente!  Ed il Sud si rassegnò al sottosviluppo. In attesa che Giambattista Vico venisse premiato dalla storia e tornasse la volta buona anche per il Sud”.  

Intanto la via Francigena era scomparsa.  “Pure quella.  La via Micaelica dimenticata”, rileva l’economista. “Scomparsi i sentieri dei monti, i pastori divennero, loro malgrado, gli unici abitanti di monti e valli, bestemmiando contro i governi che li avevano condannati a vivere fuori dal consorzio umano, dalla civiltà. Soli con le bestie ed i loro simili. La rivoluzione della modernità era compiuta. E aveva lasciato molte macerie dietro di sé. Le terre di mezzo, altrimenti definite aree interne, erano esse stesse macerie! Non erano mancati i terremoti a girare il coltello nella piaga. Il Mezzogiorno, tutto intero era pieno di terre di mezzo e divenne un coacervo di macerie. E nessuno pensò più alla via Francigena, ai percorsi micaelici, ai castelli ed alle cattedrali, ai Borghi ed alle città turrite. Tutto dimenticato”.

E arrivarono le politiche a sostegno delle aree interne                                                                                                  "In fondo da quelle parti si viveva con niente e si poteva produrre con quasi niente. E qualcuno nel bel paese si inventò i distretti. Distretti industriali li chiamavano. Buoni a produrre roba così, senza pretese. Scarpe, pantaloni, bulloni. Ma andava bene Anche le aree interne si erano illuse. Molti emigrati tornarono pure.  “E si formò un popolo di industriali, piccoli e traballanti ovviamente, a far gridare al nuovo miracolo possibile. Salvo a svegliarsi, quasi subito, con le fabbriche chiuse, e gli operai disoccupati. Era arrivata la globalizzazione e, si sa, in giro per il mondo c’è sempre qualcuno che muore di fame più degli altri. E le produzioni correvano da quelle parti”.

E le aree interne, osserva l’economista, deperirono ancora di più nel Mezzogiorno che si trovò senza sviluppo e senza più illusioni. “Ancora una volta. Con le poche fabbriche fatte atterrare da fuori che inquinavano e con l’agricoltura di casa sacrificata a quella efficiente e mastodontica che produceva per tutti. Da qualche altra parte. E la biodiversità? E le mandrie di mucche podoliche abituate a camminare da sole per boschi e pascoli montani? E l’economia amica della terra, la green economy, come la chiamavano gli esperti? Le bellezze paesaggistiche. I monti e le valli? Tutto quel mondo di civiltà e cultura che aveva vivificato le terre di mezzo, le cosiddette aree interne, e che si era stratificato in millenni di storia? Sepolto. E tutto da riscoprire".

Ed arrivarono gli angeli della via Francigena                                                                                                              Un manipolo di volontari cominciò a dissodare la memoria e a cercare i sentieri e a pulire i monumenti diroccati e a tracciare itinerari. “Con uno zaino in spalla presero a percorrere quei sentieri impervi che attraversavano un mondo sconosciuto pronto a rinascere, tuttavia. E mostrarono che è possibile ripartire dalle proprie radici. Che è possibile rimettere insieme la memoria e andare alla scoperta di sé stessi, oltre che del proprio passato, scoprendo che lì è anche il futuro. Le aree interne, le terre di mezzo, raccontavano a quei pionieri che esse avevano tutto per ricominciare. E a quei pionieri altri si aggiunsero. Presero a percorrere tratturi e sentieri. A scoprire una bellezza incantata ed una ricchezza anche straordinaria che attendeva di essere messa in circolo. Per salvare quelle terre, ma anche per salvare il Mezzogiorno e dare una mano a salvare tutto intero il Paese ed il pianeta anche, che ha bisogno di essere rispettato e amato dismettendo pratiche distruttive che ovviamente finiscono con il ritorcersi anche contro gli umani! È qui la novità della Via Francigena e di tutti i cammini che la intersecano. Essa non è una via del passato. Non riporta alla luce percorsi archeologici e tesori architettonici da ammirare! Non è il tracciato di un museo a cielo aperto. Non è un percorso ambientale e turistico, magari buono a sostenere che il Mezzogiorno si può accontentare e vivere di turismo e di agricoltura, più o meno. È anche tutto questo. Ma è molto di più. È il tracciato di un modello di sviluppo. Autentico e legato al territorio, che non intende scimmiottare lo sviluppo metropolitano. Uno sviluppo amico della terra e amico dei luoghi, della loro cultura e della loro identità e delle infinite immense civiltà che si sono sedimentate in essi”.

Il tracciato della speranza per le generazioni future                                                                                                “Un futuro per quelle generazioni che saranno capaci di affrancarsi dalla frenesia e dall’ignoranza. Che sapranno ritrovare il gusto della lentezza, del sapere critico, della scoperta e del rispetto del mondo”, sottolinea Corvino. “Che sapranno costruire un’agricoltura al passo con i tempi, centrata sulla biodiversità, la generosità della natura e sulla memoria dei padri vivificata dal loro sapere. Sapranno ridare voce ai mestieri antichi reinterpretati con l’intelligenza, la creatività e la fantasia di oggi. Sapranno costruire un’economia industriale anche, amica della terra e degli uomini che la abitano e che non insegue chi sta male per sfruttarlo ed estorcergli salari di fame creando eserciti di disperati l’uno contro l’altro schierati. Sapranno ridare vita ai Borghi ed ai castelli ed alle cattedrali, ai monasteri ed ai santuari ed alle abbazie. Sapranno parlare con il popolo delle montagne belle ed inospitali, con i pastori prigionieri di un passato costruito intorno ad essi da decisioni che li hanno costretti a diventare diffidenti sino alla cattiveria. E sapranno riempire di vita le valli e i colli, i boschi e tutte le campagne”. Capendo che c’è un potenziale straordinario di futuro. Solo che lo si voglia comprendere e, maieuticamente, farlo venire alla luce. Ecco perché la Via Francigena è molto, molto di più di una scoperta ambientalista o di un ritrovamento storico e culturale. Di un alibi turistico. Essa è la prospettiva lungo la quale costruire il futuro per la next generation di cui parla l’Europa, per uscire dal tunnel della crisi che prima di essere crisi sanitaria ed economica è una crisi esistenziale. L’Europa è chiamata a disegnare il proprio futuro guardando alle generazioni che verranno da qui ai prossimi decenni. Costruire una economia amica della terra o, come la chiamano nel nuovo esperanto, green economy. È un obiettivo irrinunciabile per salvare l’uomo dalla distruzione, dalle pandemie, dalle riemergenti piaghe bibliche, dalle glaciazioni più o meno incombenti.

Il Mezzogiorno può essere la nuova frontiera in questa prospettiva.                                                                           In questa logica, osserva Corvino, la via Francigena può essere la via maestra per un nuovo modo di essere delle terre di mezzo ed i suoi abitanti. Autonomo e ben radicato nella loro cultura, non già scimmiottato nel tentativo imposto da altri di assimilare modelli ostili addirittura. “Restituire alle terre di mezzo sicurezza, garantire condizioni di vita normali, con la realizzazione di quanto necessario a disporre di reti digitali e connettività, accesso alla mobilità ed alla conoscenza, alla salute, diventa in questo senso una scelta strategica. Portare nelle aree interne l’università e la ricerca e tutto quanto riguarda la valorizzazione della biodiversità, rappresenta un ulteriore passaggio per dare consistenza ad un progetto credibile di rilancio delle aree interne o terre di mezzo, come più aggrada di denominarle. E certo per tutto questo non servono schiere di consulenti ed esperti ma, un’amministrazione seria e motivata, e gente innamorata della terra e dei suoi abitanti, delle sue culture e delle sue civiltà e dei suoi popoli. Gli angeli dei pellegrini, che sinora hanno agito in spirito di servizio e volontariato, potranno essere anche le guide giuste per la scoperta dei territori e delle loro potenzialità nascoste. Ma tocca alle istituzioni capire la sfida ed accettarla in tutta la sua straordinaria rivoluzionaria portata. La via Francigena è molto più di un percorso di scoperta turistica, ambientale, archeologica, culturale, museale attraverso il Mezzogiorno. È molto di più”.