Economia

Da Amazon a Zoom, è finita l'era dello smart working: ecco perchè le big tech fanno dietrofront e richiamano tutti in ufficio

di Rosa Nasti

Il colosso di Bezos impone il rientro in ufficio, OpenAi e Zoom seguono la stessa strada. In Italia, però, il lavoro da remoto persiste con Tim e Intesa Sanpaolo

Le big tech ritornano in ufficio e abbandonano lo smart working

Lo smart working, un tempo acclamato come la svolta epocale nel mondo del lavoro, è finito nel mirino delle big tech. Amazon, Zoom, Disney — solo alcuni tra i colossi globali che stanno facendo marcia indietro, richiamando i propri dipendenti in ufficio.

Amazon si è fatta portabandiera di questa inversione di rotta comunicando ai propri dipendenti che, da gennaio, sarà obbligatoria la presenza in ufficio cinque giorni su cinque.  E così la fine del lavoro da remoto, introdotto durante la pandemia, è ormai ufficiale. Amazon diventa la prima grande azienda tecnologica a imporre un rientro totale, mentre altre, pur ridimensionando lo smart working negli ultimi anni, non sono mai arrivate a eliminarlo del tutto.

Un paradosso se si pensa che proprio le big tech, che dovrebbero abbracciare l'innovazione digitale, siano le prime a rigettare il lavoro da remoto. La vera motivazione? Controllo. I vertici sostengono che produttività e cultura aziendale si disintegrano fuori dall’ufficio. Andy Jassy, Ceo di Amazon, ha affermato che l'innovazione nasce solo nel confronto fisico, nelle conversazioni spontanee tra colleghi, che—secondo lui—non possono essere replicate su Zoom o Slack.

Ironia della sorte, persino Zoom, simbolo del boom dello smart working, sta ora promuovendo un ritorno parziale in ufficio. Lo stesso vale per OpenAI, dove qualche tempo fa il Ceo Sam Altman aveva dichiarato che il lavoro da remoto è stato “uno dei peggiori errori dell’industria tecnologica”. Alla lista si aggiunge  Disney, che aveva imposto ai dipendenti di tornare in ufficio almeno quattro giorni a settimana. In casa Meta—madre di Facebook, Instagram e WhatsApp—e Apple, i lavoratori hanno tentato di respingere il rientro obbligatorio con una petizione, sostenendo di essere “più felici e produttivi” da remoto. Dichiarazione che l'industria non sembra aver accolto favorevolmente.

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Tra i promotori  di un sistema ibrido, che combina smart working e presenza fisica, spiccano invece Microsoft, Revolut, Spotify e Grammarly. Al contrario, aziende come Airbnb e Deloitte hanno scelto un approccio “remote-first”, privilegiando il lavoro da remoto. E in Italia? Le realtà più innovative, soprattutto nei servizi, sembrano più inclini a mantenere il lavoro a distanza. Tim, ad esempio, tempo fa aveva lanciato un esperimento di smart working al 100% per mille dipendenti, e anche illimity e Intesa Sanpaolo avevano adottato modelli simili.

Tuttavia il messaggio è chiaro: queste aziende vedono lo smart working come una minaccia al controllo sulla forza lavoro. Hanno paura che, lavorando da casa, i dipendenti si distacchino troppo, perdano senso di appartenenza e diventino meno "gestibili". E qui nasce una contraddizione: secondo uno studio di Bloomberg, durante la pandemia, i lavoratori hanno dimostrato di essere ugualmente, se non più, produttivi da remoto. Perché allora questa marcia indietro? La risposta è semplice: potere.

E così da una parte le aziende che insistono nel richiamare tutti in ufficio rischiano di accorgersi troppo tardi che il mondo è cambiato, dall'altra i lavoratori, ormai abituati alla libertà del lavoro da remoto, non sono disposti a rinunciarvi facilmente. Chi persiste in modelli rigidi potrebbe finire per perdere il passo rispetto a chi saprà bilanciare meglio flessibilità e controllo. La vera sfida sarà proprio questa.