Economia
Il governo litiga, ma la banca va. Le mire sui 4.300 miliardi degli italiani
Le banche italiane accelerano sul risparmio gestito e sulla vendita di assicurazioni per incrementare la redditività da commissioni, business che vale 1.000 mld
Sono 25.485 gli sportelli bancari ancora aperti in tutta Italia, ma il numero è a rischio così come quello dei dipendenti del settore, destinato a ridursi di alcune altre migliaia nei prossimi anni dopo un ventennio quasi di continui esodi, incentivati o meno.
La risposta delle banche italiane ad una crisi che ha tratti fondamentali e riguarda il modello di business e la redditività, troppo bassa, di molte delle attività svolte è stata quella di accelerare sul fronte dell’offerta di servizi di risparmio gestito e di prodotti assicurativi. Una svolta che quest'anno ha consentito di generare 9,3 miliardi di profitti complessivi per gli istituti di credito e che il prossimo, secondo le stime dell'Abi, l'associazione bancaria italiana, arriverà a sfiorare gli 11 miliardi (10,9).
AFFARI DI CUORE/ Chi è quel banchiere, fra le grandi del credito tricolore, che pare esser stato folgorato dalla bellissima Claudia Parzani, 47enne presidente di Allianz Italia e partner dello studio legale Linklaters, avvocato che per tre anni ha guidato anche Valore D, la prima associazione italiana di imprese impegnata per l’equilibrio di genere? La passione è stata così travolgente nella fredda City milanese che sembra che i due big della finanza abbiano lasciato le rispettive famiglie, frutto di matrimoni avviati da anni, per coltivare il loro amore. Per fortuna, nel cinico mondo degli affari c’è spazio anche per i più nobili sentimenti. Chi l'avrebbe mai detto... |
A partire da Intesa Sanpaolo (che voci di mercato danno interessata ad acquisire un’altra compagnia assicurativa, sia che si tratti di Rbm Assicurazione Salute, con un’operazione da circa 300 milioni di euro, sia che si tratti di Vittoria Assicurazioni, che però costerebbe decisamente di più, tra 1,3 e 1,5 miliardi), le banche italiane sembrano voler puntare principalmente, se non solo, su risparmio gestito e assicurazioni, due attività che possono valere 1.000 miliardi di euro consentendo margini decisamente più elevati di quelli delle attività bancarie tradizionali con rischi inferiori.
Con una ricchezza finanziaria delle famiglie italiane salita a 4.300 miliardi di euro, gli istituti tricolori si propongono di amministrare e gestire masse sempre più importanti, per far lievitare il volume delle commissioni e realizzare economie di scala mantenendo sotto controllo i costi, decisamente più contenuti nel caso di reti di consulenti finanziari e private banker che non di dipendenti bancari.
Per i sindacati, che lanciano l’allarme, il rischio che ci siano sempre meno sportelli bancari e sempre più dei semplici “supermarket finanziari” attraverso cui distribuire prodotti (UniCredit vende in filiale addirittura Tv e smartphone Samsung e Apple) e servizi è concreto.
Questa evoluzione, secondo i sindacati, comporterebbe non solo meno posti di lavoro ma quei pochi sarebbero sempre più limitati a figure commerciali. Col rischio poi che molti gruppi provino a concentrarsi solo sulle fasce elevate del mercato, quelle degli “high net worth individual” con patrimonio e redditi significativi. “E’ un progetto che forse qualcuno ha in mente per Banca Carige”, spiegano i rappresentanti dei lavoratori, sottolineando che “è un ambito da coltivare, ma non può esserci solo questo in una banca”.
Quale potrebbe essere allora l’alternativa, posto che il modello “tradizionale” della banca commerciale sta comunque tramontando? Provare a investire su nuove professionalità e ambiti d’attività: con un personale maggiormente specializzato si potrebbe ad esempio provare a offrire servizi oggi appannaggio non solo dei consulenti finanziari ma anche dei commercialisti o dei fiscalisti.
In futuro, secondo i sindacati, occorreranno sempre più banche in grado di accompagnare le aziende italiane nel loro percorso di crescita non solo sotto il profilo dei finanziamenti ma anche dell’advisory e che sappiano in parallelo dialogare con i risparmiatori privati per aiutarli nell’ottimizzazione della ripartizione dei loro investimenti. Si potrebbe aggiungere che nell’era dei prodotti bancari e finanziari “di massa”, occorrerà anche che ogni istituto trovi un proprio modello di business, evitando di essere uno la fotocopia dell’altro come per troppi decenni è stato. Anche perché la “ricetta” che può funzionare con Intesa Sanpaolo o Unicredit non è detto si adatti perfettamente a Mps o Banca Carige, ad esempio.
Una prima prova dei risultati che questo approccio potrebbe portare è del resto già visibile: chi come Banca Ifis ha puntato con decisione su un mercato “nuovo” come quello della gestione dei crediti deteriorati è riuscito in pochi anni a crescere in maniera significativa, in netta controtendenza con l’andamento più generale del settore creditizio italiano.
L’ultimo bilancio, quello del 2018, parla infatti di quasi 150 milioni di utile netto e di un Roe del 10,4%, a fronte di un portafoglio di crediti gestiti di 15,8 miliardi nominali (circa 1,1 miliardi di euro netti) e quasi 1.800 dipendenti.
Numeri da far invidia a molte banche italiane di media dimensione, segno che la specializzazione paga anche quando si ha a che fare con un’attività “a rischio” come la gestione di portafogli di crediti deteriorati. Quegli stessi di cui le banche italiane stanno da anni cercando di disfarsi contenendo il più possibile il danno dagli stessi prodotti nei loro bilanci.