Economia

L'Europa tende la mano all'Italia. I falchi pronti a diventare colombe

I temporali di Ferragosto sui mercati globali hanno lasciato le cose come stavano. Intanto in Europa i falchi diventano colombe e aprono una finestra all’Italia

Allora, l’indice Dow Jones della Borsa di New York ha iniziato la settimana di Ferragosto una manciata di punti sopra 25.900 e l’ha conclusa una manciata di punti sotto. Di fatto piatto. Ma in mezzo c’è stato lo strappo al rialzo di quasi 400 punti martedì 13 sul ramoscello di olivo offerto da Trump ai cinesi sui dazi, seguito il giorno dopo dal tonfo di 800 punti per l’inversione della curva dei tassi che segnala recessione all’orizzonte, per poi rimbalzare dalla metà seduta di Ferragosto e continuare venerdì 16 tornando praticamente al punto di partenza. In Europa non è andata molto diversamente con lo Stoxx 600 partito lunedì poco sotto 375 e arrivato venerdì meno di 5 punti sotto. A Milano la storia raccontata dal FTSE Mib è quasi la stessa, con la settimana chiusa sopra 20.300 dopo essere partita a 20.500. In tutti i casi da segnalare la tenuta di livelli tecnici e psicologici chiave, come 20.000 per Borsa Italiana. Le motivazioni delle oscillazioni violente sono le più diverse, in Europa ha pesato soprattutto l’economia tedesca in continua frenata e nel finale la conversione da falco a colomba di Olli Rehn, esponente finlandese della Bce rapidamente passato dalla schiera dei rapaci a quella dei volatili con il ramoscello d’olivo nel becco proprio per la preoccupazione di una locomotiva tedesca che rischia di deragliare, il che lo induce a sorpassare sulla destra (o sulla sinistra in questo caso?) perfino Mario Draghi con la promessa di un nuovo bazooka in arrivo.

LA BCE PROTEGGE LO SPREAD, MA NON HA CARTUCCE PER L’ECONOMIA

Rehn non è certo un caso isolato. Una Germania impiombata dalla guerra dei dazi e colpita nei suoi colossi dell’industria e della finanza potrebbe trascinare in recessione l’economia continentale. La nuova capa in pectore della Commissione Ue Ursula von der Leyen ha già inviato messaggi di moderazione; di austerity e fiscal compact non si parla più, mentre si parla molto invece di strumenti e politiche per rilanciare gli investimenti e i consumi. Il modello vincente tedesco, basato sui surplus generati dall’export, si è ingrippato, e bisogna cambiare registro. La politica monetaria, nonostante gli annunci di Rehn, ha praticamente esaurito le cartucce; può essere ancora molto utile per contrastare sbandamenti sul fronte del debito, e infatti lo spread dei Btp italiani contro i Bund tedeschi è decisamente sotto controllo, ma non è l’arma giusta per far ripartire l’economia. Se il cavallo non beve, vale a dire se le imprese e i consumatori non approfittano dei tassi zero e sotto per investire e spendere, probabilmente non gli verrà sete anche se porti il costo del denaro ancora più in basso o in territorio negativo.

LA CRESCITA E’ IL TEMA COMUNE, SERVONO SEGNALI DI FIDUCIA

L’ingrediente che serve per rivitalizzare l’economia della zona euro si chiama fiducia nel futuro. Ovviamente la politica europea non può cancellare i fattori di incertezza che pesano a livello globale, a cominciare dalla guerra dei dazi. Ma può dare un’iniezione di fiducia annunciando e incoraggiando politiche mirate per far ripartire investimenti e consumi, come grandi progetti infrastrutturali non solo ‘fisici’ e tradizionali, ma anche nell’energia e nel digitale, magari accompagnati da riforme del mercato del lavoro e da un uso intelligente della leva fiscale. Il passaggio critico che attraversa l’Europa non è neanche un lontano parente di quello del 2011-2012. Allora era in dubbio la tenuta dell’euro: un Paese, anche se piccolo e marginale come la Grecia, rischiava l’espulsione con il rischio di un effetto domino su un altro Paese molto più grande e molto meno marginale come l’Italia. Oggi, dopo sei anni di “cura Draghi“, la tenuta della moneta unica non è più in discussione. Il tema è la crescita ed è un tema comune.

LA POLITICA DEVE USCIRE DALLA CRISI CON UN IMPEGNO EUROPEO FORTE

Il nuovo scenario europeo sarebbe l’ideale per un’Italia capace di negoziare e concordare con la nuova governance europea un percorso di crescita sostenibile, fatto di spinta agli investimenti, anche al prezzo di qualche temporaneo scostamento degli allineamenti dei conti pubblici. Un dialogo possibile che richiederebbe come prerequisito di togliere solennemente e definitivamente dal tavolo idee balzane come il “piano B” di uscita dall’euro contenuto nella sciagurata bozza di programma del maggio 2018 o come i mini-Bot tirati fuori dal cilindro un anno dopo. Non a caso le due “trovate” hanno coinciso con i picchi toccati dallo spread dopo le elezioni di marzo 2018. Mercati e investitori, infatti, non hanno mai avuto dubbi sulla “capacità” dell’Italia di onorare i suoi impegni di debito, ma li hanno avuti, sei anni fa e in misura minore negli ultimi 18 mesi, sulla “volontà” politica di farlo. Saranno questi i due fattori – impegno solenne e irrevocabile all’euro e dialogo collaborativo con un’Europa certamente meglio disposta di pochi mesi fa – su cui mercati e investitori giudicheranno il governo che uscirà dalla crisi politica in corso. Molto meno conteranno la composizione e il possibile passaggio per un voto anticipato che sembra ormai sempre meno probabile. I temporali agostani quasi mai sono stati degli affidabili indicatori anticipatori su cosa aspetta i mercati alla ripresa di settembre. In Italia le carte sono in mano alla politica: se trova il bandolo della matassa magari esce dalla crisi meglio di come ci è entrata. L’appetito degli investitori per gli asset italiani ha solo bisogno di non essere scoraggiato da ricette indigeste. Per l’Italia forse sta passando un treno giusto, perderlo sarebbe una sciagura.