Economia
Di Maio, Renzi, Silvio e Salvini. Le proposte? Belle e impossibili
Le promesse elettorali italiane costano care e non convincono i mercati, per fortuna non potranno essere realizzate tutte
L'unica alternativa al varo di misure certamente impopolari sarebbe accettare un incremento di una trentina di miliardi almeno del deficit annuo (pari a circa l'1,4% di Pil) che a quel punto sarebbe destinato a bocciatura certa in sede Ue o, ove anche i partner comunitari accettassero di fare uno "sconto" di questa portata all'Italia in termini di rispetto delle regole comuni e in particolare del principio di convergenza del debito/Pil verso il 60% e di mantenimento del deficit al di sotto del 3% del Pil (attualmente siamo rispettivamente al 132% e al 2,3%), il rischio di una bocciatura da parte dei mercati sarebbe alta, specialmente se dopo settembre la Bce interrompesse i suoi acquisti di bond sul mercato.
Neppure il reddito di dignità passerebbe. Discorso analogo per il reddito di dignità proposto sempre da Silvio Berlusconi: costerebbe una trentina di miliardi e di fatto sarebbe una versione "potenziata" del reddito d'inclusione già varato dal governo Gentiloni che però aiuta solo 700 mila famiglie e di miliardi ne costa solo due, recuperati peraltro con grande fatica. Siccome la credibilità di un debitore agli occhi di un creditore è tutto, un governo che puntasse solo ad aumentare il deficit per varare tale misura rischierebbe di dover pagare salata la decisione in termini di maggiori tassi sul debito pubblico. Ossia di miliardi di euro di interessi, probabilmente gli stessi miliardi che non si volessero recuperare con tagli alla spesa.
La misura più improbabile e improponibile, agli occhi dei mercati, sarebbe poi uno stop alla legge Fornero di riforma della previdenza pubblica, avanzata dalla Lega. Costerebbe 80 miliardi (il 3,6% del Pil) ma quel che è peggio minerebbe drasticamente la sostenibilità di una spesa che già oggi, in un paese come l'Italia che presenta uno dei tassi d'invecchiamento più elevati d'Europa. Oggi, come ha ricordato di recente Stefano Scarpetta, direttore del dipartimento Occupazione, lavoro e affari sociali dell'Ocse, ci sono 4 persone over 65enni ogni 10 persone in età lavorativa (sotto i 64 anni) ma nel 2050 il rapporto è previsto salire a 7 over 65 ogni 10 persone sotto i 64 anni.
Estendere l'età lavorativa, cercare di migliorare la qualità del mercato del lavoro in modo che crescano i lavori qualificati (e ben retribuiti) e stabili (così da evitare che restino scoperti da contributi troppi anni) è il solo modo di garantire pensioni adeguate in futuro, peccato che ciò non possa essere fatto per decreto, come dimostrano i risultati del "Jobs Act" (con un incremento del numero di occupati per il 90% legato a contratti precari e solo il 10% a contratti a tempo indeterminato).
Percorrere la strada inversa, smantellando la Fornero, senza che il sistema collassi su se stesso richiederebbe un mercato del lavoro in costante crescita, cosa che nessuno ipotizza per l'Italia nei prossimi decenni, e una ripresa della natalità (anche in questo caso improbabile, pur tenendo conto dei flussi migratori) che garantista un numero costante di persone in età da lavoro rispetto agli anziani. Alla fine, dunque, solo una manciata delle promesse elettorali sembra potersi tramutare, non senza fatica e con la necessità di attuare scelte politiche coerenti, in misure concrete.
Anche perché non tutte le promesse darebbero un esito positivo sotto il profilo dell'equità: una tassazione con un'aliquota unica inferiore all'attuale aliquota minima Irpef, oppure l'eliminazione tout court delle tasse universitarie (che oggi forniscono un reddito di quasi 2 miliardi di euro) proposta dal presidente del Senato, Piero Grasso, de facto darebbero un beneficio più che proporzionale agli "happy few" ad elevato reddito, ossia proprio coloro che possono più facilmente sopportarne il mantenimento.
Luca Spoldi