Economia

La crisi bancaria italiana ha un nome, Mps

Luca Spoldi

Ora Siena deve trovare una soluzione in tempi brevi

 
Mps al lavoro con l'assistenza di Jp Morgan per rispettare la richiesta della Bce di abbattere di 10 miliardi di euro di valore lordo di libro la consistenza dei crediti deteriorati (Npl), ancora troppo pesanti in rapporto al patrimonio netto e dunque tali da far concretamente correre il rischio all'istituto senese di non superare lo stress test di questi giorni, i cui risultati saranno resi noti il prossimo 29 luglio.
L'obiettivo resta quello di limitare i danni e farlo in fretta: a fine marzo gli Npl in pancia a Mps erano nel complesso pari a 47 miliardi, coperti in media per il 49%. Ciò significa che ogni cessione fatta per un importo inferiore alle metà è mediamente fonte di perdita. Mps aveva già messo in preventivo di vendere 5,5 miliardi nell'arco del triennio in corso, dover vendere altri 4,5 miliardi significa potenzialmente subire una minusvalenza, visto che al momento questi asset si cedono attorno al 20% del valore lordo di libro, di circa 1,5 miliardi da sommare a quella già prevista di 1,65 miliardi complessivi.
Secondo indiscrezioni giornalistiche l'obiettivo "realistico" sarebbe spuntare un valore tra il 27% e il 30%, cedendo a un veicolo finanziario ("Newco") circa 26,6 miliardi di Npl. La Newco dovrebbe dunque spendere circa 7 miliardi che sarebbero garantiti da un finanziamento ponte di Jp Morgan, per poi cartolarizzare gli Npl acquistati emettendo 7 miliardi di tranche senior, sulle quali attivare le Gacs (le garanzie statali, ndr), ed una tranche junior.
Quest'ultima, più rischiosa, verrebbe sottoscritta integralmente dal fondo Atlante, che ha ancora 1,25 miliardi a disposizione per acquistare Npl, o da un nuovo fondo (Atlante2 o Giasone che dir si voglia), cui potrebbero aderire anche alcuni operatori esteri ma non le casse previdenziali. A questo punto Mps dovrebbe contabilizzare una perdita attorno agli 1,9-2 miliardi di euro, gli Npl lordi calerebbero a poco più di 20 miliardi, quelli netti risulterebbero tra i 9 e i 10 miliardi, il patrimonio netto scenderebbe a 7 miliardi. Servirebbe ancora un aumento da almeno 3 miliardi di euro (più probabilmente da 3,5-4 miliardi) per riportare il Texas ratio (sofferenze lorde su patrimonio netto tangibile) al di sotto del 100%, dal 140% attuale.
La "crisi sistemica" delle banche italiane è tutta qui (al netto di situazioni marginali come quelle della Cassa di risparmio di Cesena), ma perché tanto affanno, non si potrebbe lasciar fallire Mps o, in alternativa, dargli più tempo per fare le necessarie pulizie di bilancio? La prima ipotesi è politicamente non percorribile, non solo per i legami diretti che Mps ha con un partito di governo (il Pd), ma perché se non passasse lo stress test la banca correrebbe il rischio di subire la stessa sorte di BpVi e Veneto Banca, o peggio di Banca Etruria, venendo commissariata dalla Bce ed essendo poi portata a compiere comunque una serie di drastiche operazioni straordinarie sino a rischiare, nella peggiore delle ipotesi, di veder applicate le norme sul bail-in.
In questo caso, ossia se l'istituto non dovesse più risultare solvibile (come invece è tuttora), la Bce potrebbe pretendere l'azzeramento del valore dei titoli e la conversione a capitale delle obbligazioni junior. Solo queste ultime, secondo voci non confermate, coinvolgerebbero almeno 60 mila piccoli risparmiatori. Il rischio di trovarsi una banca con un management indipendente da ogni legame politico, impegnato a fare tabula rasa dei capitali di azionisti e obbligazionisti junior, dopo le polemiche feroci del "precedente" delle quattro banche risolte lo scorso dicembre non può essere accettata dal governo italiano.
Neppure può essere accettata dalla Bce l'ulteriore slittamento della soluzione ai problemi di Siena, che si trascinano ormai da anni e sebbene appaiano in via di miglioramento non stanno risolvendosi sufficientemente in fretta. Col rischio Brexit sullo sfondo e la possibilità di ulteriori rallentamenti economici ciclici negli anni a venire, Eurotower non vuole vedere addossare alla parte sana del sistema bancario italiano (tanto meno europeo) i costi di una crisi che ha riguardato fin dall'inizio un numero limitato di istituti tricolori.
Costi che tra "autotassazione" per salvare le quattro banche risolte in dicembre tra cui Banca Etruria, la partecipazione "spintanea" al fondo Atlante e quella altrettanto "volontaria" al rifinanziamento del fondo interbancario di questa primavera sono già saliti a 7,5 miliardi, peraltro senza evitare che Unicredit prima e Intesa Sanpaolo poi dovessero "passare la mano" dopo aver pensato di garantire (e guadagnarci) gli aumenti di capitale di BpVi e VenetoBanca.
Col risultato che anche Unicredit è finita poi nel vortice delle voci di possibili aumenti di capitale che solo l'arrivo di Jean-Pierre Mustier, rapido nel cedere il 10% di FinecoBank e di Bank Pekao e così nel raccogliere in pochi giorni un primo miliardo di euro, è riuscito almeno in parte a calmierare. Decisamente la via per trovare una soluzione appare stretta, anche se la crisi "sistemica" italiana non è affatto un problema di sistema ma di singoli istituti per troppi anni amministrati in base a criteri più politici che di sana e prudente gestione.