Corporate - Il giornale delle imprese
Area Studi Mediobanca, presentato il report sul sistema universitario italiano
L'indagine esamina le sfide del sistema universitario italiano: dal calo demografico alla competizione territoriale, fino all’innovazione tecnologica
Area Studi Mediobanca, pubblicato il report sul sistema universitario italiano
L’Area Studi Mediobanca ha redatto un report dedicato al sistema universitario italiano che ne ripercorre le linee evolutive dell’ultimo decennio e ne esamina le principali sfide: dal calo demografico, alla competizione territoriale, dall’attrattività degli studenti stranieri, fino all’innovazione tecnologica e al ruolo delle università telematiche. Sono inoltre stati presi in esame i profili economico-patrimoniali nel 2022 dei 61 atenei statali e dei principali non statali, sia tradizionali che telematici.
Le sfide delle università italiane: demografia e competizione territoriale
Il sistema universitario italiano è chiamato a fronteggiare il calo demografico e i suoi impatti economici. Assumendo costante il tasso di passaggio dalla scuola superiore all’università, nel 2041 il minore introito da rette di frequenza per la riduzione degli iscritti è stimabile, in via prudenziale, in circa 500 milioni di euro, per effetto di circa 415mila studenti in meno (-21,2%). Il depauperamento della popolazione universitaria è atteso più evidente nel Mezzogiorno, con flessioni superiori al 30% in Molise, Basilicata, Puglia e Sardegna che portano il Sud e le Isole a un calo complessivo del 27,6%.
Meno acuti, ma comunque preoccupanti, i saldi negativi del Nord (-18,6%) e del Centro Italia (- 19,5%). Il contrasto del calo demografico passa anche attraverso il potenziamento dell’attrattività internazionale che tuttavia vede proprio gli atenei del Sud sfavoriti con appena il 2,5% di iscritti internazionali. D’altra parte, la stessa competizione territoriale in Italia nell’ultimo decennio ha sfavorito proprio le università del Sud (-16,7% di iscritti) e delle Isole (-17,1%), a fronte dei progressi di quelle del Nord Ovest (+17,2%) e del Nord Est (+13,4%).
La fuga dal Sud e Isole dipende anche dalle infrastrutture: il tempo medio necessario per raggiungere la sede degli studi nel Mezzogiorno supera i 150 minuti, mentre la media italiana è di 88 minuti. La migratorietà universitaria si deve poi confrontare con la modesta ricettività degli studentati universitari: si valuta essi offrano un posto ogni 9 studenti fuorisede, ma alcune stime portano il rapporto a 1:21. Purtroppo, il limitato investimento dell’Italia nell’educazione terziaria non aiuta ad affrontarne le sfide: l’1% del PIL del nostro Paese si confronta con l’1,3% medio della UE e l’1,5% dei Paesi OCSE; il nostro 1,5% in termini di spesa pubblica ci distacca dal 2,3% della UE e dal 2,7% dell’OCSE.
Lo Stato contribuisce alla spesa per la formazione universitaria per il 61% del totale, rispetto al 76% della UE e al 67% dell’OCSE. La quota residua è per lo più sostenuta dalle famiglie: 33% in Italia contro il 14% della UE e il 22% dell’OCSE. La stessa adeguatezza dell’offerta formativa delle università italiane solleva interrogativi, ad esempio in termini di composizione anagrafica del corpo docente: in Italia la quota con meno di 40 anni è pari al 15,1%, contro il 19,7% della Spagna, il 30,5% della Francia e il 52,1% della Germania
Il sistema universitario italiano si basa sulla presenza di atenei statali (61) e non statali o liberi (31) che a loro volta si suddividono in tradizionali (20) e telematici (11). Tutti gli atenei statali sono tradizionali. Nel 2022, l’82,2% degli iscritti frequenta un’università statale (era il 91,8% dieci anni prima), l’11,5% una telematica (2,5%) e il residuo 6,3% una libera università (5,7%). È evidente l’esplosione degli atenei telematici i cui iscritti sono cresciuti nel decennio del +410,9%. Nello stesso periodo gli iscritti delle università tradizionali sono rimasti stabili (+0,1%), mediando la crescita delle non statali (+21,3%) e la flessione delle statali (-1,2%).
Alcune cifre segnalano un’evoluzione positiva del sistema negli ultimi anni. Nel 2022, il 77,2% degli iscritti risulta regolare o in corso, in evidente miglioramento dal 66,6% del 2012. In effetti, le ultime coorti di studenti triennali evidenziano una crescente percentuale di laureati in corso: per gli immatricolati del 2017/18, essa ha toccato il 38%, al termine di una regolare crescita che partiva dal 27,3% della coorte 2011/12. Ma anche in questo caso il dato medio nasconde dinamiche differenziate e il 38% si assortisce per tipologia di ateneo e area geografica: tocca il 45,1% nel Nord Ovest, per scemare al 29,9% del Sud e al 27,3% delle Isole; si ferma al 37,8% per gli atenei tradizionali e sale al 44,8% per quelli telematici.
Tuttavia, a sei anni dall’immatricolazione e sempre per le lauree triennali, risulta laureato il 63,7% degli immatricolati, con un tasso di ritardo o abbandono che appare ancora troppo elevato. Mediamente, la laurea triennale viene conseguita a 24,4 anni, mentre attorno ai 27 anni si ottiene quella magistrale: l’età media di laurea è di 25,6 anni, anche in questo caso in calo dai 26,7 anni del 2012. In effetti, la popolazione universitaria degli atenei tradizionali si è ringiovanita nell’ultimo decennio: la porzione di quella con età fino a 23 anni è cresciuta dal 61,9% del 2011/12 al 66, 4% del 2021/22. Anche il voto medio di laurea è migliorato: da 102,7/110 nel 2012 a 104/110 nel 2022.
Nel 2021/22 gli atenei italiani hanno offerto 5.180 corsi di studio (5.031 da parte di quelli tradizionali e 149 di quelli telematici), con un progresso dell’11,7% nel decennio, per un numero medio di studenti per corso attorno alle 380 unità. Con riferimento agli ambiti disciplinari, i 5.180 corsi sono afferenti per il 35% a materie STEM, per il 25,6% al comparto sanitario e agro-veterinario, per il 23,9% appannaggio delle specialità economico-giuridiche e per il residuo 15,5% di quelle artistico-letterarie. Il corpo docente è un asset fondamentale dell’offerta didattica: quello di ruolo (esclusi quindi i docenti a contratto e gli straordinari) evidenzia una crescita cumulata tra il 2012 e il 2022 del 6,6%.
Se per le università statali il progresso dei docenti si è fermato al +5,3%, nelle università libere ha toccato il +21,7%, per segnare un raddoppio nelle telematiche (+102,1%). Il 56% del corpo docente ha almeno 50 anni, per un’età media pari a 51,1 anni che raggiunge il proprio massimo per i professori ordinari (58,2 anni). In tema di genere, il 41,3% del personale docente è femminile (41,6% negli atenei statali e 39,7% nei non statali), ma merita ricordare che tra i Rettori in carica nel 2022 la quota di donne cade al 12,1% (era il 7,5% nel 2012). Il personale tecnico-amministrativo appare invece in contrazione dal 2012, con una flessione dell’8,1%. La variazione compendia il ridimensionamento degli atenei statali (-10,8%) cui fanno da contraltare gli incrementi delle libere tradizionali (+11,9%) e il balzo delle telematiche (+131,3%).
Il 64,4% del personale tecnico-amministrativo degli istituti statali ha almeno 50 anni e l’età media è cresciuta da 48,7 anni nel 2012 a 51,9 anni nel 2022, con picco di 55,8 anni per i ruoli dirigenziali. La quota femminile è pari al 60,8%. Le università telematiche sono nate tra il 2003 ed il 2006, dopo che la legge finanziaria per il 2003 ne aveva contemplato l’istituzione e l’abilitazione al rilascio di titoli accademici, previo superamento delle procedure di accreditamento. A partire dal 2006 il processo di riconoscimento è venuto meno: la legge finanziaria per il 2007 ha fatto espresso divieto all’autorizzazione di nuove università telematiche. Le 11 oggi operanti in Italia agiscono quindi in un settore chiuso a ulteriore competizione.
I numeri della loro crescita dal 2012 sono così riassunti: +112,9% il numero di corsi, +444% gli immatricolati, +410,9% gli iscritti, +102,1% il corpo docente, +131,3% il personale tecnicoamministrativo. Il successo dell’insegnamento a distanza deriva da molteplici fattori, in primis demografici. L’allungamento dell’età media, e con essa quella del pensionamento, comporta carriere lavorative più estese che a loro volta si confrontano con un contesto in cui le competenze professionali tendono a divenire precocemente obsolete e a convivere con percorsi lavorativi che possono subire repentini cambiamenti e richiedere interventi di re-skilling o up-skilling.
La longevità, inoltre, offre a coloro che hanno concluso il proprio percorso professionale l’occasione di approfondire in età matura conoscenze o interessi che non è stato possibile coltivare in precedenza e che la formazione a distanza rende più facilmente fruibili. Inoltre, le università telematiche rappresentano un’opzione per quanti intendono seguire l’offerta universitaria extra regione senza doverne sopportare i costi. Infatti, il 42,8% (vs 35,6% per le tradizionali) degli immatricolati delle università telematiche è residente nel Meridione.
Anche il profilo anagrafico degli studenti delle telematiche è peculiare: quelli con età superiore a 28 anni sono pari al 57,3% (vs 13,6% per le tradizionali) e l’età media degli studenti è di 27,6 anni. D’altra parte, il 45,2% degli iscritti agli atenei a distanza proviene da una precedente carriera in atenei in presenza. La quota di laureati triennali in corso è del 44,8% (vs 37,8% per le tradizionali). Questi elementi segnano una parziale segregazione della domanda formativa formulata dai frequentanti delle telematiche, che esprimono esigenze didattiche che con più difficoltà riescono a soddisfare negli atenei tradizionali.
Ma la situazione è in divenire: ad esempio, l’età media degli iscritti alle telematiche era di 35,2 anni un decennio fa, con parziale convergenza verso i profili degli studenti ‘tradizionali’. Inoltre, il calo demografico (e di iscritti) impone agli atenei in presenza di intercettare le richieste legate alle nuove esigenze formative: se è vero che il 94% di tutti i corsi offerti resta fruibile solo in presenza, i corsi accessibili integralmente online rappresentano il 4% del totale, di cui il 3% ad opera degli atenei telematici. Il residuo 2% dell’offerta si configura in modalità mista ad opera delle università tradizionali. Sommando la modalità puramente digitale e quella mista degli atenei tradizionali, la loro offerta ‘non tradizionale’ è nei fatti equivalente a quella degli atenei telematici.
La scalabilità offerta dal modello didattico a distanza delle telematiche consente loro di segnare nel 2022 un rapporto studenti per docente di ruolo pari a 384,8 (era 152,2 nel 2012), ampiamente superiore ai 28,5 degli atenei tradizionali (30,2 nel 2012). Nelle statali il medesimo rapporto si attesta a 28,2, più basso di quello delle non statali che vale 38,2. Le numeriche cambiano radicalmente ove si considerino i docenti a contratto, arruolati per le proprie competenze professionali, ma privi di un titolo d’insegnamento derivante da concorso: essi rappresentano il 23,3% del corpo docente nelle statali, incidenza che sale al 69,8% nelle non statali tradizionali per arrivare al 79,5% nelle telematiche.
I rapporti studente per professore si modificano di conseguenza: per le tradizionali si arriva a 19,1, per le statali a 20,4, ora al di sopra delle non statali tradizionali che segnano 10,3. Le telematiche sono sempre su livelli più elevati, ma ora ridotti a 75,4. I dati delle telematiche sono comunque in veloce evoluzione. Recenti provvedimenti normativi hanno modificato i requisiti di accreditamento in termini di tipologia di docenti e loro rapporto con il numero di iscritti, con un progressivo innalzamento da realizzarsi entro il 30 novembre 2024. La rimodulazione dei rapporti tra personale didattico e studenti incide su un tratto qualificante del modello organizzativo degli atenei telematici che è anche alla base delle loro performance economiche.
Le tre tipologie di ateneo individuate (statali, non statale e telematico) comportano rette di frequenza (la c.d. contribuzione studentesca) assai differenziate: si va dai 1.374 euro in media richiesti dalle università statali, ai 2.147 euro delle telematiche, fino ai 7.447 euro delle non statali tradizionali. Le università statali nel 2022 hanno realizzato proventi operativi per 14,3 miliardi, così composti: per il 22% da proventi propri (rette di frequenza e ricavi da ricerca), per 73,4% da contributi, la grande maggioranza proveniente dal Ministero dell’Università, e per il residuo 4,6% da ricavi diversi.
Nell’insieme si tratta di 8,9mila euro per studente. La voce di costo più rilevante è relativa al personale, che vale il 51,4% dei proventi operativi (37,2% il corpo docente e 14,2% il personale tecnico-amministrativo). Tra gli altri costi della gestione corrente si segnalano quelli relativi al sostegno agli studenti e al diritto allo studio (15,3%). Il sistema universitario statale, spesati costi operativi per 13,1 miliardi (8,2mila euro per studente), realizza un ebit margin pari all’8,3% dei proventi operativi e un risultato netto positivo che ne vale il 5,6% (circa 800 milioni di euro). Resta da ricordare che gli atenei statali nel 2022 hanno sostenuto investimenti per oltre un miliardo di euro, il 7,1% dei proventi operativi, formati per 831,3 milioni da investimenti materiali e per 177,5 milioni da attivi immateriali.
Il loro stato patrimoniale segna un totale pari a 31,2 miliardi. Il patrimonio materiale arriva a sfiorare i 10 miliardi e a toccare il 31,9% del totale attivo. Alcuni istituti sono proprietari di patrimoni librari e artistici importanti, la cui valutazione complessiva è pari 858,2 milioni. Le poste creditorie (comprensive del trascurabile magazzino) si ragguagliano al 24,2% del totale attivo, ma per il 48% la voce è afferente ai rapporti con il Ministero e le Amministrazioni centrali rivenienti dalla titolarità dei contributi non ancora liquidati.
Tuttavia, la voce individualmente più rilevante in seno agli atenei statali è costituita dalla liquidità che si attesta a oltre 11,9 miliardi di euro, ovvero il 38,2% del totale attivo. Il patrimonio netto, pari a 13,8 miliardi, rappresenta il 44,1% del totale di bilancio, anche se il 78,7% della sua consistenza ha natura indisponibile in quanto soggetto a specifici vincoli di destinazione. Il patrimonio non vincolato, derivante dai risultati di gestione, ammonta a circa 3 miliardi e supera la massa debitoria che si attesta a 2,6 miliardi. Con riferimento a quest’ultima, si rileva che essa è costituita per il 31,7% da indebitamento bancario.
Tra il 2016 e il 2022, i proventi operativi degli atenei statali sono cresciuti del 16%, sostenuti dai contributi (+23,4%). Il margine operativo netto è passato dal 6,8% dei proventi operativi all’8,3% del 2022 (+40,7% in valori assoluti), dopo avere superato il 10% nel 2020 e 2021. Il risultato netto nello stesso periodo è cresciuto del 26,5%. I proventi operativi degli atenei tradizionali non statali hanno composizione differente: i proventi propri ne rappresentano il 74,5%, i contributi il 15,1%, gli altri ricavi il 10,4%.
I proventi operativi per studente sono pari a 14mila euro. Il margine operativo netto si fissa al 2,4% dei ricavi operativi, il risultato netto al 3,9%. Quanto allo stato patrimoniale, la dotazione di liquidità cala al 4,8% del totale attivo (era 38,2% nelle statali), ma ad essa si affiancano ora attivi finanziari immobilizzati (32,8%) e non immobilizzati (un ulteriore 10,7% del totale attivo). Il patrimonio netto complessivo si attesta al 48,2% del totale di bilancio, ma nelle libere università è la quota non vincolata (67,8%) a prevalere su quella vincolata (32,2%). I debiti sono pari al 19% del totale attivo, ampiamente inferiori al patrimonio netto non vincolato. Infine, per le università telematiche i dati contabili si fanno assai scarsi. Tuttavia, per i maggiori operatori è possibile stimare un ebit margin compreso tra il 30% e il 40%, di gran lunga superiore alle performance degli atenei tradizionali.