Economia
Poste Italiane, la cessione di quote fa insorgere i lavoratori
Vendere il pacchetto in mano al Mef non è un pericolo per la governance dell'azienda, ma è l'ennesima occasione persa di abbattere la spesa improduttiva
Poste Italiane, la cessione non mette in pericolo la governance ma è un autogol economico
Al di là dell’ormai iconica “pausa toilette”, dalla conferenza stampa di fine anno di Giorgia Meloni emerge un dettaglio che dovrà essere approfondito: la privatizzazione di Poste Italiane. Brevissimo riassunto: attualmente la società che gestisce lettere, pacchi e conti correnti è detenuta al 64,26% dal tandem Cdp-Mef. L’idea sarebbe quella di diluire la quota di entrambi mantenendo comunque la maggioranza assoluta del 51%. L’intenzione, dunque, è vendere il 13,26% che, a valori attuali corrisponderebbe a circa 1,8 miliardi. Il titolo è in flessione da dopo l’annuncio, segno che il mercato – per il momento – non sembra farsi entusiasmare dall’idea del governo.
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D’altronde, Poste Italiane è lontanissima parente di quel carrozzone pubblico di un tempo, che perdeva le lettere per strada e che era diventato sinonimo di inefficienza. Oggi è un’azienda tirata a lucido, con un servizio di spedizione assai più affidabile di quello di altri competitor, con una gestione anche dei prodotti bancari (la vera rivoluzione introdotta da Corrado Passera) che rimane un’eccellenza ben guidata da Matteo Del Fante che, infatti, è stato confermato dal governo di centro-destra. Dunque, toccare Poste sarebbe un vero rischio. E i dipendenti, insieme ai sindacati, tremano. La loro paura è che con la cessione delle quote dell’azienda si possa creare un terremoto per i lavoratori. Su Facebook crescono gruppi di dipendenti che inneggiano alla “protezione di Poste Italiane”.
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Fiaip Cisal, una delle sigle sindacali di categoria, ha addirittura emesso un comunicato durissimo. “Si tratta – si legge nella nota - di un'operazione scriteriata da ogni punto di vista, sia economico perché la vendita delle quote del Tesoro farebbe perdere allo Stato la proprietà di Poste Italiane e si rivelerebbe un danno permanente per il Tesoro che, a fronte del ricavato della dismissione, perderebbe i consistenti dividendi che ogni anno riceve dagli utili di Poste Italiane, che, in pochi anni appena pareggerebbero il prezzo di realizzo dalla dismissione, sia sociale perché consegnerebbe nelle mani private il controllo della più grande azienda di servizi del paese con spiccate vocazioni sociali, provocando inesorabilmente tagli al personale, e, sospensione del servizio nelle aree economicamente meno attrattive. Per queste ragioni la Failp Cisal sollecita l'apertura immediata di un tavolo di confronto di tutte le parti sociali interessate presso il Ministero di Economia e Finanze e il Ministero delle Imprese e del Made in Italy". Non dimentichiamo, inoltre, che Poste è il primo datore di lavoro in Italia, con oltre 120mila dipendenti.
Viene anche rievocato un post di Giorgia Meloni del gennaio 2018, uno di quelli che è decisamente invecchiato male. Su Twitter, infatti, la futura premier scriveva che “per Fratelli d’Italia è un gioiello che deve rimanere in mano italiana e pubblica, è un presidio di legalità e di presenza dello Stato. Ci batteremo in tutti i modi possibili per evitarne la svendita”. Che cos’è successo nel frattempo? Che la Meloni è diventata Presidente del Consiglio e ha dovuto fare un bel bagno di realpolitik, tra un bilancio in chiaroscuro (cresceremo meno della media Ue nel 2024) e un rapporto turbolento con Bruxelles.
È davvero così? No, si tratta di paura sostanzialmente ingiustificate. I dipendenti di altre società partecipate come Eni, Enel, Leonardo e altri non vivono certo una situazione complessa. E lo stesso succede anche oggi in Poste. Il problema, semmai, è di carattere finanziario. L’impegno del governo di dismettere in tre anni 20 miliardi di partecipazioni per raccogliere circa l’1% del pil è una proposta che rischia di tramutarsi in un enorme boomerang. Le aziende di stato, almeno le big, sono in salute e l’idea di rinunciare a quote non si traduce in un rischio di macelleria sociale o di qualche improbabile “controllo” da parte di soggetti terzi e stranieri. No, il problema è che si rinuncia a una buona quota di utili. Che, nel caso di Poste, ammontano a 1,5 miliardi nei primi nove mesi del 2023. Una proiezione aritmetica potrebbe parlare di quasi due miliardi per l’anno appena concluso. La quota da dividere tra Mef e Cdp sarebbe quindi di circa 1,3 miliardi. Se si cedesse il 13% si otterrebbero circa 1,8 miliardi, come detto, ma si dovrebbe rinunciare a 250 milioni all’anno. Insomma, in sette anni l’effetto privatizzazione sarebbe totalmente sterilizzato.
La verità è che il governo con l’annuncio della dismissione per 20 miliardi si è dato la zappa sui piedi. Perché da quasi dieci anni – con l’allora commissario Carlo Cottarelli – si cerca di disboscare quella foreste di aziende che non hanno dipendenti, che costano miliardi e che sono in perdita. Ma nessun governo, di destra, di sinistra o tecnico, si è mai preso la briga di imbracciare il machete. Cedere quote di aziende in salute, ben gestite, parte del patrimonio italiano non rappresenta un pericolo per la nostra democrazia, ma per la nostra economia. Prova ne sia un recente studio Comar che testimonia come dalle società partecipate arrivino una pioggia di quasi 20 miliardi di utili, nonostante un 2023 in cui le utility hanno beneficiato in misura minore del caro energia.
Nel Regno Unito il governo detiene solo il 10% delle Royal Mail eppure nessuno riceve lettere aperte o pacchi ammaccati. L’importante, dunque, è mantenere gli standard elevati, garantire che chi compra sia un soggetto affidabile ed impedire (ma è chiaro che non accadrà) la macelleria sociale. D’altronde, se anche il governo dovesse decidere di liquidare l’intera quota di Cdp si troverebbe comunque con un pacchetto di poco inferiore al 30% che – grazie anche al golden power – consentirebbe di esercitare serenamente il controllo. Dunque, non è un problema di governance ma di soldi. E quelli, senza coraggio, saranno sempre più difficili da trovare. Serviva un po’ di coraggio in più nell’annunciare – primo governo con larghissimo consenso elettorale dai tempi di Silvio Berlusconi nel 2008 – provvedimenti che permettessero di razionalizzare sprechi e tagliare inefficienza. Sarà per la prossima volta, ma che peccato.