Economia

Sud, lo sviluppo? Partire dagli investimenti agricoli

Luca Bianchi*

L'analisi dello Svimez sul settore agroalimentare meridionale

Il Rapporto ISMEA-SVIMEZ sull’agricoltura del Mezzogiorno consente di offrire un quadro aggiornato delle dinamiche più recenti del comparto, dei suoi persistenti elementi di debolezza, soprattutto legati ad un contesto infrastrutturale ancora sfavorevole, ma anche del suo dinamismo sui mercati nazionali e internazionali.

I principali numeri dell’agricoltura al Sud nel 2017
Il 2017 è stato un altro anno difficile per l’agricoltura italiana, ma, in questo contesto, il Mezzogiorno ha avuto una performance migliore di quella del Centro-Nord. Soprattutto grazie all’andamento del settore olivicolo e all’aumento dell’export agricolo. All’aumento del Valore Aggiunto agricolo nel 2017 ha contribuito, infatti, soprattutto il Sud, con 13 miliardi e 178 milioni di euro (+6,1% rispetto al 2016, a fronte del +2,5% nel Centro-Nord).

I settori che l’anno scorso hanno maggiormente risentito delle avversità metereologiche sono stati quelli del vino (-14% della produzione), dei cereali (-11,7%), della frutta (-6,15), con particolare riferimento alle mele (-18,2%).  L’olio, invece, dopo un 2016 molto critico, ha aumentato la produzione del 17,3%, che tuttavia non è stato sufficiente a recuperare i livelli produttivi del passato. 

Per meglio comprendere l’evoluzione dell’agricoltura a livello territoriale, i dati congiunturali vanno riportati nel quadro delle dinamiche strutturali e produttive rilevate in un periodo più lungo. Se si analizza l’andamento del Valore Aggiunto negli anni della crisi economica, dal 2007 al 2017, l’agricoltura italiana è cresciuta a valori correnti dell’8,6%, senza sostanziali differenze tra le due aree del Paese. In termini reali le differenze territoriali sono state, invece, significative. Di fatto, nel periodo in esame, il Valore Aggiunto dell’agricoltura meridionale diminuisce del 9,3% a valori concatenati, mentre nel Centro-Nord si osserva un aumento del 3,9%.     

Per comprendere i fattori alla base di questa diversa dinamica sarebbe necessario analizzare in modo approfondito cosa è successo a livello di singolo comparto e all’interno dei diversi territori. In ogni caso, si può ipotizzare che nell’ultimo decennio siano stati intrapresi due differenti percorsi di sviluppo. Nel Mezzogiorno c’è stata una specializzazione nelle colture a più alto valore aggiunto e/o un processo di valorizzazione della produzione che ha compensato le minori quantità prodotte; al contrario, nel Centro-Nord si è attuato un percorso di intensificazione e di aumento delle quantità. Il risultato finale di questa evoluzione è una riduzione del peso dell’agricoltura meridionale sul totale nazionale a valori costanti, ma una sua stabilità a valori correnti. 

I diversi andamenti regionali nel Mezzogiorno
La Calabria è l’unica regione che dal 2016 al 2017 ha visto crescere (+6,5%) il Valore Aggiunto agricolo, anche in maniera consistente. Fatta eccezione per l’Abruzzo che cresce dello 0,3%, tutte le altre regioni meridionali registrano variazioni negative, prima tra tutte la Sardegna (-5,6%). La Campania, in analogia con le altre regioni meridionali, vede calare il valore aggiunto dell’1,3% a valori concatenati mentre cresce del 4% circa a prezzi correnti.

Cresce l’export agricolo meridionale
Nel 2017 le esportazioni agroalimentari sono state pari a 7 miliardi e 112 milioni di euro, composte per circa 2 miliardi da prodotti agricoli e per 5 miliardi da prodotti alimentari, bevande e tabacco. Il contributo complessivo del Sud all’export agroalimentare resta contenuto seppur in crescita: il 17,4% di quello nazionale, con una crescita al Sud nel 2017 di oltre il 3%. Negli ultimi 5 anni l’export agroalimentare meridionale è cresciuto di circa 2 miliardi di euro. La componente più dinamica dell’export è quella dei prodotti alimentari pari a circa 5 miliardi. I comparti in cui si concentrano le esportazioni meridionali sono quelli della Frutta e ortaggi lavorati e conservati (25% delle esportazioni agroalimentari dell’area), dei Prodotti da forno e farinacei (12,6%), dei Prodotti delle colture permanenti e non permanenti (15,3% e 12% rispettivamente).

Poco meno della metà dell’intero export agroalimentare meridionale, il 44%, lo ha fornito una sola regione, la Campania, che esporta soprattutto prodotti trasformati.  Seguono, in graduatoria, Puglia e Sicilia, la prima con prodotti da forno e farinacei e con l’olio. Un importante contributo lo ha dato il settore del vino, soprattutto in Sicilia e Puglia, regioni con la maggior superficie vitata italiana.  I mercati di sbocco più importanti per l’export agroalimentare meridionale sono Germania, Inghilterra, Stati Uniti e Francia. Da soli questi paesi assorbono circa il 48% delle esportazioni agroalimentari della circoscrizione. Le esportazioni verso la Germania sono concentrate soprattutto nel comparto dell’ortofrutta fresca e trasformata; verso il Regno Unito sono dirette le esportazioni di ortofrutta trasformata, soprattutto conserve di pomodoro, e pasta; al mercato statunitense sono destinati principalmente pasta (il 20% del valore dei prodotti farinacei esportati), frutta e ortaggi lavorati, olio di oliva (poco meno di un quarto delle esportazioni meridionali di olio) e prodotti dell’industria casearia.

Ancora basso il livello degli investimenti nell’agricoltura meridionale
Il 2017 è stato un anno di ripresa degli investimenti. Dopo due anni di sostanziale stabilità, i dati del 2017 mostrano non solo un aumento più consistente degli investimenti fissi nel settore (+3,3%), ma anche una variazione percentuale leggermente maggiore per l’agricoltura meridionale (+3,4%) rispetto a quella rilevata nel Centro-Nord (3,2%). Questo ultimo dato, tuttavia, va inquadrato all’interno di un discorso più ampio sugli investimenti nell’agricoltura meridionale.

In particolare, è necessario, evidenziare due aspetti specifici. In primo luogo, il livello di investimenti nel Mezzogiorno è molto basso rispetto a quello del Centro-Nord, sia in riferimento alla base produttiva che al valore aggiunto prodotto. Nel 2017 l’agricoltura meridionale ha investito circa 2,2 miliardi di euro a valori correnti, a fronte dei 7,1 miliardi di euro nel Centro-Nord. Il rapporto tra investimenti e valore aggiunto prodotto è, dunque, pari al 17% nel Mezzogiorno, contro il 37% rilevato per l’agricoltura centro-settentrionale. 

In secondo luogo, non solo il livello degli investimenti nell’agricoltura meridionale è più basso che nel resto del Paese, ma si sta riducendo in misura maggiore. Infatti, l’evoluzione degli investimenti fissi lordi a partire dal 2010 mostra un processo di disinvestimento che riguarda tutto il Paese, ma che è più accentuato nel Mezzogiorno. Di fatto, tra il 2010 ed il 2017, in agricoltura si è investito il 16% in meno in termini reali, con una riduzione percentuale doppia nel Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord (-26% e -12,7%, rispettivamente). 

In questo quadro, il dato congiunturale non è tale da indicare un cambiamento di rotta o una modifica strutturale dei processi di investimento nel Mezzogiorno. Esso potrebbe riflettere, almeno in parte, la ripresa del sostegno agli investimenti garantito dai Programmi di Sviluppo Rurale, dopo la stasi causata dal ritardo nell’avvio dell’attuale fase di programmazione 2014-2020 e, dunque, potrebbe essere il segno di una dipendenza dei processi di investimento dalle politiche di aiuto. 

Il 2017 è stato un anno di ripresa degli investimenti. Ma il livello di investimenti nel settore primario al Sud resta ben più basso (2,2 miliardi) rispetto a quello del Centro-Nord (7,1 miliardi). Dal 2010 è in atto un pericoloso processo di disinvestimento in agricoltura, che, pur riguardando l’intero Paese, risulta più accentuato nel Mezzogiorno, -26%, a fronte di un -12,7% nel Centro-Nord.

Le produzioni tipiche a indicazione geografica nelle regioni del Mezzogiorno
A fine 2017 nel Mezzogiorno risultano riconosciute 64 DOP (Denominazione Origine Protetta) e 44 IGP (Indicazione Geografica Protetta): il 37% del totale nazionale. Il 73% dei prodotti riconosciuti si concentra in Sicilia, Campania, Puglia e Calabria. Nello specifico sono 30 tra DOP e IGP in Sicilia, 23 in Campania, 20 in Puglia, 18 in Calabria, 10 in Abruzzo e Basilicata, 8 in Sardegna e 6 in Molise.

Al di là del numero è interessante valutare il fatturato all’origine dei prodotti di qualità: la Campania con 366 mln nel solo comparto food è la più importante regione del Sud (circa il 50% del totale Sud), grazie soprattutto al Consorzio della mozzarella di bufala  DOP. Nel comparto dei vini, al Sud si registra il 16% della porduzione nazionale di Dop e il 32% di IGP.

Sul fronte delle produzioni a Indicazione  geografica, quindi, la fotografia realizzata restituisce l’immagine di un ambito dalle considerevoli potenzialità per il prossimo futuro secondo una traiettoria che, se ben governata, consentirebbe di sviluppare e valorizzare in ottica sistemica la produzione agroalimentare, il relativo territorio e il retroterra culturale. La capacità di organizzarsi e darsi delle strategie condivise rimane però l’elemento critico su cui operare. 
  
Crescono nel 2017 le imprese agricole giovanili al Sud dopo il calo degli anni precedenti. 
Il numero delle imprese agricole giovani è calato sensibilmente fino al 2015, per poi registrare una ripresa, che nel 2016 ha interessato maggiormente il Nord e il Centro (rispettivamente +9% e +12,5%) e meno il Mezzogiorno (+1,9%), mentre nell’ultimo anno il Mezzogiorno si è allineato alle tendenze generali (+5,9% a fronte di una media nazionale del +5,6%). Questo dato è ancora più significativo se si considera che nel 2017 lo stock totale di imprese agricole non è aumentato rispetto all’anno precedente (-0,3% in Italia e -0,4% nel Mezzogiorno).

Conclusioni
Il sistema agroalimentare meridionale è una potenzialità ancora parzialmente inespressa per lo sviluppo dell’economia meridionale. Gli elementi di vitalità si scontrano ancora con vincoli che ne depotenziano la possibilità di attivare virtuosi processi di crescita della produzione e dell’occupazione.

Superare questi vincoli richiede una strategia, una “visione” che sia in grado di cogliere il ruolo dell’agricoltura non solo come produttore di beni in senso stretto, ma anche come settore che produce beni di qualità (nelle sue diverse accezioni), come elemento caratterizzante delle aree rurali con il loro portato di relazioni sociali, tradizioni e identità culturali, come componente del tessuto produttivo che può svolgere un ruolo importante nella tutela del paesaggio e della biodiversità, nonché nella difesa del territorio. 

L’agricoltura, infatti, è l’unica attività economica, in un approccio moderno alla pianificazione, capace di realizzare obiettivi privati quali il profitto di impresa e, nello stesso tempo, obiettivi pubblici quali la difesa territoriale.  Implementare una strategia così descritta richiede, però, la realizzazione di politiche di intervento pubbliche e private innovative e integrate. Questa è la sfida che attende i policy makers locali all’alba di una nuovo periodo di programmazione della politica agricola europea. Restano, tuttavia, molti punti deboli che vanno affrontati se si vuole innescare un circolo virtuoso di sviluppo in cui l’attività primaria abbia un suo ruolo forte. 

In primo luogo, esiste ancora un divario funzionale tra il Mezzogiorno produttore di materie prime e il Centro-Nord in cui sono localizzate le fasi a maggiore valore aggiunto, non solo le industrie di trasformazione, ma anche gli esportatori e le piattaforme di distribuzione con servizi integrati. 

In secondo luogo, il tasso di organizzazione della produzione meridionale è ancora modesto e ciò rappresenta un forte limite. L’integrazione all’interno del settore, infatti, non solo rappresenta uno strumento per la pianificazione e valorizzazione della produzione, ma può aumentare le capacità di dialogo e confronto con gli altri operatori della filiera, prima di tutto la grande distribuzione organizzata. 

In terzo luogo, molto spesso il Mezzogiorno è associato a fenomeni di irregolarità e illegalità. Negli ultimi anni fenomeni criminali come quello della Terra dei Fuochi in Campania hanno avuto un impatto economico diretto sull’agricoltura, così come negli ultimi anni all’agricoltura meridionale sono stati associati fatti drammatici legati allo sfruttamento della manodopera che, evidentemente, vanificano qualunque strategia di sviluppo basata sulla qualità. 

Su questi punti di debolezza occorre intervenire. La complessità dei problemi richiede una risposta complessa e articolata che coinvolge direttamente le istituzioni e comporta la realizzazione di politiche di intervento pubbliche e private innovative ed integrate. A tale scopo il prossimo periodo di programmazione della PAC può contribuire in modo specifico, ma sicuramente è necessaria una visione più ampia che coinvolga ambiti diversi di intervento.

Messi in luce i punti di forza, oltre che naturalmente i limiti, le linee d’intervento della politica necessitano di un piano di investimenti, che non sia emergenziale e che non sia legato alla necessità di finanziare apparati che hanno bisogno di essere tenuti in vita. Non bisogna stanziare dei fondi perché sono disponibili, trovando quindi qualcosa che giustifichi gli stanziamenti. Bisogna individuare quali siano gli interventi davvero necessari o prioritari e far convergere verso di essi le risorse.

La stella polare di un nuovo quadro di politiche agricole deve essere la valorizzazione della distintività delle produzioni meridionali, attraverso la valorizzazione della qualità del prodotto e la sostenibilità del processo produttivo. Una sfida nuova che partendo da Sud può aiutare l’intero agroalimentare italiano a dare un contributo decisivo alla ripresa del Paese.

*Direttore dello Svimez