Economia

Tim, il futuro della rete ultraveloce? Dall'esito della lite Vivendi-Mediaset

di Marco Scotti

Ecco perché

Due mesi per capire che cosa succederà della rete unica italiana. In mezzo, diversi appuntamenti che determineranno le strategie future del nostro Paese. L’11 febbraio il tribunale civile di Milano dovrà pronunciarsi con l'udienza finale sulla vicenda Mediaset-Vivendi, con il Biscione che chiede tre miliardi di danni dopo il fallimento della trattativa per Premium.

Che c’entra questa querelle con la rete unica? In realtà moltissimo, perché i francesi sperano ancora di trovare un accordo con la famiglia Berlusconi che rassereni gli animi. Una volta conclusa questa vicenda, infatti, la holding di Vincent Bollorè dovrà concentrarsi su Tim. E dovrà farlo in tempi rapidi. Alla fine di febbraio bisognerà presentare le liste per il rinnovo del consiglio di amministrazione dell’ex-Sip.

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Il Ceo di Tim Luigi Guibitosi

Vivendi, che pure ha il controllo del 24% del capitale azionario di Tim, al momento esprime solo cinque nomi sui 15 complessivi. Nove sono in capo a Elliott, il fondo che deteneva la maggioranza relativa delle quote dell’azienda. Ora, dal momento che da statuto, chi prende più voti in assemblea ha diritto ai due terzi dei posti in consiglio, cioè dieci, ci sono parecchi nodi da sciogliere. Anche perché se l’intero consiglio dovesse ripresentarsi così com’è, ipotizzando che diventi espressione di un’unica lista, ci sarebbero da depennare cinque nomi e tutti, naturalmente, di emanazione Elliott.  Intanto, il board uscente ha annunciato l'intenzione di presentare una sua lista. In un documento elaborato alla fine della scorsa settimana si legge che "il consiglio di amministrazione ha quindi deciso all’unanimità di avvalersi della facoltà, di presentare una propria lista. Si tratta di una novità nella storia di Tim, resa possibile e opportuna dal fatto che non ci sono soci che esercitino il controllo, che il socio che ha candidato la maggioranza degli amministratori in carica ha sostanzialmente alienato la propria partecipazione, che allo stato non risulta la volontà di alcun socio di presentare una lista volta alla nomina della maggioranza dei consiglieri".

Serve fare chiarezza sui pesi in campo: Vivendi ha il 24%, Cassa Depositi e Prestiti poco meno del 10, Assogestioni è sotto la soglia del 5%. E poi ci sono i fondi americani, capitanati da Blackrock, che hanno un complessivo vicino al 40% ma che non hanno mai avuto grandi velleità di governare la barca. Anzi, l’idea è di trovare gli uomini migliori per massimizzare il profitto. 
 

"E poi ci siamo anche noi – spiega ad Affaritaliani.it Franco Lombardi, il presidente di Asati, l’associazione dei piccoli azionisti – che da 10 anni chiediamo a gran voce di far entrare un nostro rappresentante in cda come avviene in tutte le società analoghe in Europa. Lo stesso De Puyfontaine ci aveva dato ragione e ci aveva garantito che sarebbe successo. Attendiamo". 

Dunque, di carne al fuoco ce n’è parecchia. Se dunque il consiglio di amministrazione uscente ha dato mandato al presidente Salvatore Rossi di preparare la lista di maggioranza, la Cassa ha un ulteriore problema: se ottiene un’affermazione troppo forte ed esprime la maggioranza del cda rischia di vedersi “bacchettare” dall’Unione Europea sulla questione Open Fiber. Perché si troverebbe da una parte a guidare l’azienda che si occupa di cablare l’Italia, e dall’altra come timoniere del consiglio di amministrazione di chi vuole fare la rete unica. Un bel problema da far digerire alla commissaria Margrethe Vestager che convocherebbe immediatamente Gualtieri (o chi ci sarà con il rimpasto) per avere chiarimenti. 

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Il commissario europeo alla Concorrenza Margrethe Vestager

D’altro canto, il governo ha preteso che Enel uscisse dalla partita Open Fiber perché vedeva di buon occhio un maggiore coinvolgimento di Cdp. Si vuole puntare a un ritorno dello Stato nell’ex-Sip? Sì, ma ci sono troppi problemi per far sì che succeda una cosa del genere.

"Asati – aggiunge Lombardi – ha la possibilità di portare una sua lista perché deteniamo, come richiede lo statuto, più dello 0,5% del capitale sociale. Poi ovvio che in assemblea, facendo proprio i conti della serva, dovremmo ottenere almeno il 4% per poter avere un posto in cda. In tutto questo voglio segnalare che è stato avviato un piano di Pad, cioè di acquisto di azioni della società da parte dei dipendenti, che sono state cedute a 0,31 centesimi per azione. Sono state comprate 127 milioni di azioni e se anche questi soggetti decidessero di unire le forze con noi potremmo arrivare all’1,8% del capitale azionario complessivo. Si tratta del terzo piano azionario che abbiamo proposto al management. Il primo sotto la gestione Bernabè, il secondo con Patuano e ora questo. Certo però per avere più potere in azienda non possiamo aspettare una quarta tranche, altrimenti chissà quanto ci vorrebbe".

Quello che appare certo è che sia l’amministratore delegato Luigi Gubitosi, sia il presidente Salvatore Rossi saranno riconfermati. La battaglia, dunque, si gioca sulle altre 13 poltrone. 

Ma torniamo all’inizio: che cosa c’entra la vicenda Vivendi-Mediaset? Se Vivendi dovesse soccombere durante il processo, potrebbe ingenerarsi una reazione a catena. Abbandonata Mediaset, abbandonato il progetto di un player che coniughi rete, telefonia e contenuti on demand, potrebbe perfino decidere di tirare i remi in barca. I numeri, d’altronde, non sono molto buoni.

Da inizio anno il valore del titolo è sceso e non sembra che ci siano i presupposti per invertire la tendenza. Senza contare che il governo, mentre a parole invita a trovare un accordo con il Biscione, ha eretto il muro della Golden Power che rischia di affossare qualsiasi velleità francese. Un muro, oltretutto, che riguarda sia Mediaset che l’ex-Sip. E se Vivendi lasciasse l’Italia, chi sarebbe disposto a subentrare in Tim? 

Servirebbe trovare un nuovo partner e ricominciare da capo, dopo i fallimenti degli ultimi anni. Chi entrerebbe in questa società così tormentata? Dopo l’Olimpia di Marco Tronchetti Provera – che non a caso aveva intenzione di avviare una sinergia tra telefonia e contenuti – si sono avvicendati il salotto buono della finanza (Generali, Intesa e Mediobanca) con Telefonica e poi Vivendi. La quale ha perso parecchio dal suo arrivo in Italia, visto che nel momento del suo ingresso “massiccio” il titolo valeva oltre un euro per azione mentre ora è fermo a 0,37. 

«Se dovesse arrivare un accordo di qualsiasi tipo tra Mediaset e Berlusconi – chiosa Lombardi – potrebbero esserci dei benefici anche per Tim». E in effetti, come detto, c’è ancora molto lavoro da fare. E il tempo stringe.