Economia

Trade war, non solo Usa-Cina. Tensioni tra Giappone e Corea del Sud

Luca Spoldi

Se la ripresa dei colloqui tra Washington e Pechino porta sollievo ai mercati, cresce il rischio di un nuovo focolaio di guerra commerciale tra Tokyo e Seul

 

La ripresa delle trattative tra Usa e Cina fa ben sperare i mercati, ma il rischio di guerre commerciali non è del tutto dissolto, non solo a causa di sempre possibili cambiamenti d’umore del presidente Trump, che ha abituato i mercati a repentine accelerazioni e altrettanto brusche frenate come tattica negoziale, ma anche perché non esistono tensioni solo tra Usa e Cina, ma anche tra altri paesi.

In particolare tra Giappone e Corea del Sud da anni covano tensioni focalizzate sul comparto high-tech (già tra i principali punti di attrito tra Washington e Pechino), sfociate in una prima “rappresaglia” lo scorso primo luglio, quando il governo di Tokyo ha introdotto una serie di limitazioni all’export di tre materie prime (poliimmide fluorurata, resina fotosensibile e fluoruro di idrogeno) indispensabili per la fabbricazione di semiconduttori (per i quali l’inport di materie e componenti giapponese rappresenta il 32% del totale), monitor (le importazioni giapponesi rappresentano in questo caso ben l’83% del totale) e componenti per auto elettriche.

Guarda caso produzioni nelle quali le aziende di Seul hanno ormai raggiunto o sta puntando ad ottenere una leadership mondiale. Non solo: Tokyo starebbe anche valutando di rimuovere la Corea del Sud dalla “whitelist” di paesi “fidati” per le proprie esportazione, creata con l’obiettivo originale di ostacolare la proliferazione di armi. Tale mossa potrebbe tuttavia limitare le esportazioni di centinaia di articoli verso la Corea del Sud, ostacolando ancora di più il settore tecnologico di Seul e danneggiando in particolare gruppi come Samsung Electronics o SK Hynix.

La mossa, hanno avvertito gli analisti di Goldman Sachs, potrebbe coinvolgere il 97% delle esportazioni giapponesi in Corea, anche se gli effetti potrebbero essere di breve durata, essendo a quel punto le singole aziende che dovrebbero avviare le pratiche burocratiche per ottenere il permesso ad esportare i propri prodotti a Seul. Ad oggi 857 prodotti sono esportati liberamente, mentre altre 263 sono ritenuti “strategici” e hanno dovuto richiedere già una specifica autorizzazione.

Le tensioni tra i due paesi, peraltro, risale a diversi decenni addietro, Seul avendo più volte dichiarato che Tokyo non aveva effettuato sufficienti compensazioni per i lavori forzati nelle fabbriche e nelle miniere occupate dal Giappone in Corea durante la seconda guerra mondiale. Che il clima tra i due paesi sia al minimo degli ultimi anni è confermato anche dalle notizie giunte in questi giorni secondo cui, spontaneamente, molti benzinai coreani si stanno rifiutando di rifornire automobilisti che guidano vetture giapponesi.

Da parte sua il premier Shinzo Abe ha detto di aver dovuto introdurre limiti all’export high-tech giapponese verso la Corea perché avrebbe avuto le prove che Seul non monitora adeguatamente l’export di prodotti (armi in particolare) collegati ai materiali “sensibili” ricevuti dal Giappone, un’accusa che il governo coreano di Moon Jae-in ha subito respinto al mittente. Fare leva sul nazionalismo per difendere supposti interessi strategici sembra pagare anche in Asia: gli indici di popolarità sia di Abe sia di Moon sono infatti risaliti verso i massimi storici.

Sullo sfondo, però, crescono le preoccupazioni dei colossi high-tech americani, già alle prese con dazi e bandi introdotti o minacciati da Trump verso la Cina e che ora temono, come hanno scritto in una lettera inviata ai ministri del commercio giapponese e coreano, che “cambiamenti non trasparenti e unilaterali nelle politiche di controllo delle esportazioni possano causare interruzioni della catena di approvvigionamento, ritardi nelle spedizioni e, in definitiva, danni a lungo termine alle società che operano all’interno e al di fuori dei confini e ai lavoratori che queste impiegano”.

Finora il grido d’allarme non ha funzionato nei confronti di Trump e non si vede come possa funzionare nei confronti di Abe o di Moon. Anche perché la situazione potrebbe ulteriormente degenerare: il vice-premier sudcoreano Kim Seung-ho ha già inviato una lettera al Wto, denunciando la mossa di Tokyo come una uno “strumento politico” per impedire alle vittime del lavoro forzato di chiedere alle compagnie giapponesi un risarcimento derivante dalle pratiche di lavoro forzato durante la seconda guerra mondiale.

Accuse che l’ambasciatore giapponese al Wto, Junichi Ihara, ha già rigettato ribadendo che le limitazioni all’export varate da Tokyo sono materia di sicurezza nazionale (una motivazione adottata dallo stesso Trump nel recente passato) e pertanto non possono essere discusse al Wto. Così tra accuse reciproche il clima tra i due paesi asiatici continua a peggiorare e sul settore high-tech mondiale pende l’ennesima spada di Damocle, in aggiunta a quella creata dal braccio di ferro commerciale tra Stati Uniti e Cina.