Economia
Ue - 2017 l'anno del crack dell'euro? Così Draghi fa infuriare i tedeschi
Scenari/ Con gli attuali squilibri macroeconomici il fallimento dell'euro è evidente. Ci sarà l'uscita di Germania o Italia, o si troverà un rimedio?
Il 2017 potrebbe rivelarsi l'anno della fine dell'euro? Non è detto che succeda, ma certo le tensioni vanno crescendo e ormai poco si fa per nasconderle. Dopo gli ultimi dati sull'inflazione, ad esempio, la Germania sembra impaziente di mettere un freno alle "misure straordinarie" volute in questi anni da Mario Draghi tanto che l'Handeslblatt ha già titolato, qualche giorno fa, "Prigionieri nella trappola del tasso".
In effetti i dati di dicembre hanno contribuito a svelare un segreto di Pulcinella: avere una sola moneta e una sola politica monetaria quando in Germania l'inflazione è pari all'1,7% mentre in Italia è pari allo 0,5% e in Francia allo 0,6% non è l'ideale. Vero è che proprio la moneta unica e i tassi sottozero rendono possibile alla Germania registrare, da anni, forti surplus della bilancia commerciale ma anche questa è, semmai, una ulteriore prova che così com'è l'unione monetaria europea non va da nessuna parte.
Di chi la colpa? I tassi bassi servono a sostenere soprattutto il Sud Europa, da oltre sei anni alle prese con una crisi del debito che la successiva "cura" a colpi di austerità fiscale ha semmai finito con l'accentuare, peraltro senza che l'allentamento della politica del rigore che si è registrato nell'ultimo anno e mezzo abbia saputo produrre risultati degni di nota. I divari esistenti prima della nascita dell'euro non si sono appianati in 16 anni ed è difficile credere che si appianeranno nei prossimi mesi, così qualcuno torna a invocare l'uscita, vuoi dell'Italia, vuoi della Germania, dall'Eurozona come estremo tentativo per tenere in piedi una creazione riuscita neppure a metà.
Il problema è tuttavia sempre lo stesso: l'uscita della Germania (e di altri paesi a lei storicamente vicini come l'Olanda o la Finlandia), suggerita anche da consulenti finanziari come Roland Berger, non avrebbe senso, visto che uscirebbero circa i tre quarti dell'intera area dell'euro (ossia la vecchia area marco). Più semplice a questo punto provare a espellere l'Italia ed eventualmente gli altri paesi del Sud Europa (o magari la stessa Francia, viste le tentazioni che sembra avere al riguardo la candidata alla presidenza del Front National, Marine Le Pen), in modo consensuale per cercare di ridurre i danni al minimo.
Ma è realmente possibile? Su questo la discussione si sta infervorando da mesi, con premi Nobel come Joseph Stiglitz che non perde occasione per ribadire la sua opinione, ossia che l'euro sia un'istituzione fallita, responsabile di tassi di disoccupazione giovanile superiori al 40% nel Sud Europa, dalla quale ci si può salvare solo uscendone in modo "ordinato" prima il Paese più disperato sia costretto ad uno strappo violento a causa della pressione sociale.
Molti altri esperti fanno però notare uscendo dall'euro i flussi di cassa reali dei paesi in uscita verrebbero mutati dal diverso tasso d'inflazione rispetto a quella media dell'area euro. Essendo tale valore medio attualmente attorno all'1,1%, anche solo un'inflazione del 3%-4% muterebbe drammaticamente i rendimenti dei titoli di stato, attualmente per l'Italia mantenuti vicini ai minimi storici dalle ridotte aspettative d'inflazione e dai continui acquisti operati dalla Bce (che sarebbero destinati a cessare).
Crescerebbe dunque il rischio default per tutti i detentori, nazionali e internazionali, di titoli di stato italiani (o greci, o francesi). C'è chi obietta: basta ragionare in termini di "economia di carta", torniamo a puntare sull'economia "reale". Bene, anzi male: è vero che la svalutazione che si avrebbe tra le "nuove" valute nazionali (lira, dracma, franco francese etc) rispetto all'euro potrebbe favorire l'export, ma questo avverrebbe solo in presenza di un significativo differenziale inflattivo accumulato verso i partner con cui attualmente il cambio è fisso, ossia nei confronti della Germania.
Nel caso italiano il differenziale inflattivo accumulato dal 2002 ad oggi rispetto alla media dell'area euro non supera il 2%, quindi il sostegno all'export sarebbe molto modesto. In compenso una volta uscita dall'area euro l'Italia od altri paesi rischierebbero di essere percepiti come inflattivi e di registrare una costante fuoriuscita di capitali in cerca di difesa contro l'aumento dei prezzi (esattamente come si è costantemente verificato con la lira, quando per contrastare tale tendenza la Banca d'Italia doveva tenere i tassi ufficiali su livelli ben più elevati degli attuali).
Ma avremmo la mano libera per sostenere la domanda interna tramite spesa pubblica, dirà qualcuno. Peccato che con oltre 2.100 miliardi di debito pubblico, una pressione fiscale tra le più elevate al mondo e un deficit/Pil superiore al 130% non è minimamente credibile l'avvio di un ciclo di "deficit spending", per mancanza di mezzi con cui finanziarlo. L'unico modo per sostenere la crescita è del resto, nel lungo periodo, un aumento della produttività a fronte di una inflazione bassa e sotto controllo che si traduce in una moneta forte e stabile.
Un'inflazione elevata (conseguenza di un eventuale tentativo di finanziare la crescita aumentando l'offerta di moneta da parte della banca centrale) deprime invece i profitti reali sia da reddito fisso sia da capitale di rischio, favorisce la fuoriuscita di capitali e tende a fare collassare il sistema economico. Se l'Italia e la Germania sono ancora così differenti dopo 16 anni è sicuramente la prova che qualcosa non ha funzionato, ma non si tratta, nonostante la moda popolare, della moneta unica, bensì delle (mancate o insufficienti) riforme che ciascun paese membro dell'Eurozona ha saputo o voluto varare in questi anni.
La Germania ha le sue colpe e rigidità, ma l'Italia (e non solo) poco ha fatto per rilanciare il proprio sistema produttivo. Sperare ora che possa passare un'ipotesi come quella avanzata da Roland Berger, secondo cui per preservare l'euro occorrerebbe "istituire un sistema di trasferimenti fiscali simile a quello che esiste tra i lander tedeschi" in base al quale i paesi europei più ricchi contribuirebbero al bilancio di quelli più poveri, compensando gli squilibri macroeconomici causati, anche, dal surplus della Germania, rischia di essere un "whishful thinking". Ma ad un'intera classe politica tra le più modeste degli ultimi decenni, in Italia e non solo, tutto questo non sembra interessare.