Economia
Unicredit di Mustier fa i conti con l’eredità di Profumo
Fondo hedge Caius Capital accusa l’istituto di aver erroneamente contabilizzato i Cashes emessi per circa 3 miliardi nel 2009 e...
In una giornata che vede scattare copiose prese di profitto a Piazza Affari il titolo Unicredit va anche peggio del mercato nel suo complesso cedendo superiore al 3% contro un calo inferiore al 2% dell’indice Ftse Mib. A pesare sulla banca guidata da Jean-Pierre Mustier, che secondo voci di mercato sarebbe pronto a cedere un altro miliardo di crediti in sofferenza prima dell’estate, per poi puntare a un’ulteriore cessione da 3 miliardi di “inadempienze probabili” prima della fine dell’anno, è la polemica sollevata da un fondo hedge “opportunista”, Caius Capital, circa la classificazione come Core equity Tier 1 (CeT1, la parte più “solida” del patrimonio di una banca) di una particolare tipologia di obbligazioni convertibili a determinate condizioni con scadenza 2050, i “Cashes” (letteralmente: Convertible and subordinated hybrid equity-linked securities).
Secondo il fondo, che fa capo ad Antonio Batista e William Douglas ed è specializzato in investimenti “distressed”, la Banca d’Italia non applicò correttamente le norme europee (un errore in cui poi incorse anche la Bce di Mario Draghi) quando autorizzò l’emissione di tali strumenti per 2,983 miliardi di euro nel 2009 nell’ambito di un aumento di capitale misto da 6 miliardi di Unicredit resosi necessario per riportare il CeT1 al 6,7%. L’operazione venne poi seguita da altre tre ricapitalizzazioni nel 2009, nel 2012 e nel 2017. Nel 2009 Unicredit era guidato da Alessandro Profumo e forse proprio i rapporti poco idilliaci tra il manager e Fondazione Cariverona, primo socio col 6% dell’istituto, influirono sulla decisione di quest’ultima di non sottoscrivere la sua tranche di Cashes (500 milioni di euro).
Secondo Caius Capital in ogni caso per computare i Cashes nel CeT1, come ha fatto da allora l’istituto, si sarebbero dovuti convertire effettivamente tali strumenti in titoli azionari, ipotesi prevista tassativamente solo a determinate condizioni, ad esempio se le quotazioni di Unicredit superassero il 150% del prezzo di esercizio (ossia 46,25 euro in termini rettificati). Non solo: poiché la remunerazione dei Cashes è collegata all’erogazione di dividendi ordinari, “se si investono soldi in Unicredit, una parte di quel denaro sarà usato per ripagare investitori che hanno messo capitali in precedenza”, visto che Unicredit sui Cashes paga un tasso pari all’Euribor più il 4,5% a patto di aver distribuito un dividendo ordinario.
Così il fondo si è rivolto all’Eba contestando in particolare il fatto che i Cashes non dovrebbero essere inclusi nel CeT1, che non sono tra gli strumentri approvati dall’Eba stessa, che sono contemporaneamente conteggiati come CeT1 e come Tier 2 e infine che pongono limiti alla cancellazione del pagamento dei dividendi sui titoli azionari Unicredit. Per ora Unicredit fa spallucce e in una nota ha già sottolineato come il trattamento regolatorio dei Cashes sia stato puntualmente e pienamente illustrato al mercato, venndo “confermato e rivisto dalle autorità regolatorie competenti” e tanto dovrebbe bastare.
In ogni caso, aggiugono da Unicredit, il contributo dei Cashes alla posizione patrimoniale complessiva della banca sarebbe “non significativo” visto che le azioni sottostanti rappresentano ormai meno del 10% del capitale nominale a fronte di un CeT1 ratio salito al 13,6% a fine 2017. Peccato che Caius Capital non la pensi così e sostenga che i Cashes di fatto rendono non adatti i titoli Unicredit al calcolo del CeT1, che dunque dovrebbe essere ricalcolato rispetto ai 48,9 miliardi di euro messi a bilancio finora, riducendo di circa due terzi a meno del 5% contro l’8,78% minimo richiesto attualmente alla banca dalla Bce. Una “bomba atomica” che solo la pronuncia dell’Eba potrà disinnescare una volta per tutte.
Visto anche che l’uso di strumenti ibridi di capitale si è poi diffuso in tutta Europa appare molto improbabile che l’Eba dia ragione a Caius Capitale, ma se anche solo dovesse chiedere la conversione “forzosa” dei Cashes qualche problema potrebbe toccare agli investitori (tra cui alcune fondazioni socie di Unicredit, ma anche i fondi di Aviva o di Ethna) a cui Mediobanca, dopo aver garantito l’inoptato, girò i titoli. Infatti i Cashes, emessi quando i titoli Unicredit valevano 1,9 euro e finora convertiti in rare occasioni (nel gennaio 2012 i De Agostini convertirono i propri in 6,5 milioni di azioni Unicredit investendo 12,5 milioni di euro), sono al momento scambiati attorno al 75% del loro valore nominale e a causa delle regole di conversione i detentori si ritroverebbero in mano azioni ordinarie Unicredit pari ad appena il 6% del valore nominale dei Cashes convertiti.
Mors ors tua, vita mea: per Caius Capital sarebbe invece una manna, perché il fondo, come ha fatto notare il Financial Times, ha una posizione “corta” su questi strumenti, ossia sostanzialmente ha la possibilità di venderli allo scoperto a un prezzo fisso, guadagnando tanto di più quanto più dovesse calare il loro valore. Caius, mentre non ha smentito di avere un interesse nella vicenda, ha però ribadito che la sua è una crociata in difesa del “sacrosanto” valore del CeT1: così è, se vi pare.