Esteri
Coronavirus, la lezione dei paesi a contagio zero: prevenire meglio che curare
Il covid-19 è una pandemia, ma alcuni stati l’hanno gestita meglio di altri, arrivando a registrare anche zero morti: tempismo e prevenzione sono il segreto
L’11 marzo 2020 quella di Covid-19 è stata ufficialmente dichiarata dall’Oms una pandemia. Eppure non tutti gli stati del mondo ne stanno vivendo gli effetti allo stesso modo. Ci sono paesi in cui i decessi per coronavirus sono pari a zero. Com’è possibile? Le spiegazioni sono molteplici ma le parole chiave sono due: tempismo e prevenzione.
La base di partenza sono le statistiche fornite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che raccoglie le informazioni ufficiali comunicate dai vari paesi, ma è evidente che questi dati sono in costante aggiornamento e che non possono avere un reale valore assoluto.
Se, infatti, anche per paesi molto colpiti e molto evoluti come Italia e Stati Uniti è impossibile avere cifre definitive perché è impossibile sottoporre a tampone tutta la popolazione, ancora peggiore è la situazione di paesi poveri in cui le strutture assistenziali sono carenti e non è facile tenere conto dei casi di contagio effettivi. Bisogna quindi essere elastici nell’analizzare i numeri, ma alcune riflessioni si possono comunque fare.
I paesi a 0 casi di coronavirus
Innanzitutto, esistono stati che hanno dichiarato zero contagi e zero decessi legati al coronavirus. Alcuni sono casi comprensibili, come certe isole e microisole dell’Oceania, tra cui Vanuatu, Tonga, Palau, Samoa, le isole Salomone. Piccole, poco popolate, “disperse” nell’Oceano Pacifico, fuori dalle maggiori rotte del turismo di massa, è facile credere che siano effettivamente riuscite a isolarsi dal pericolo.
Altri stati, invece, destano per lo meno qualche sospetto, come la Corea del Nord, che certo può essere favorita dall’isolamento internazionale ma condivide comunque il suo confine maggiore con la Cina, o il Turkmenistan, dove l’uso della parola “coronavirus” è vietato da mesi e la polizia arresta chi parla apertamente del virus o indossa la mascherina in pubblico. Le notizie non sono molte, dato che non esistono media indipendenti nel paese, ma si sa comunque che, pur senza alcuna spiegazione ufficiale, gli ingressi e le uscite dalla capitale Ashgabat sono stati chiusi dal 20 marzo, e che vi sono limitazioni nei collegamenti interni al paese.
Il caso della Mongolia
Molto più interessante, sempre restando in Asia, è la Mongolia, che registra, al 29 maggio, 161 casi confermati e nessun decesso da coronavirus. Sarebbe facile pensare che ciò sia dovuto alla scarsità di popolazione, e d’altronde la Mongolia è tra le regioni con la densità abitativa minore su tutta la Terra, con meno di due persone per chilometro quadrato.
Controlli al confine settentrionale tra Mongolia e Cina
In realtà, la capitale, Ulan Bator, raccoglie un milione e mezzo di abitanti e presenta una densità (307/km²)
non troppo diversa da quella di Bergamo (404/km²) che è tra le zone più colpite dal virus in Italia ma anche in Europa. Inoltre, il paese confina con Russia e Cina, con cui è legato da strade, ferrovie e linee aeree, e prevede collegamenti quotidiani diretti con Wuhan, l’epicentro originario della pandemia.
Osservando il comportamento del paese asiatico, si capisce subito la sua strategia, che si può riassumere con il semplice ma efficace proverbio: “Prevenire è meglio che curare”. La Mongolia, infatti, ha iniziato a reagire al virus quando ancora non si era diffuso nel paese, anzi, tre mesi prima che si registrasse il primo caso di persona infetta, ovvero a gennaio.
Ha osservato ciò che succedeva in Cina senza la presunzione di esserne immune, ha chiuso i confini, ha collaborato da subito con l’Oms e ha attivato un lockdown preventivo che, quindi, ha potuto essere graduale e meglio compreso dalla popolazione, e non imposto nel giro di pochi giorni o ore a contagio già in atto come successo altrove. Ha da subito e coscientemente permesso il rimpatrio dei propri cittadini all’estero accogliendoli in sicurezza e sottoponendoli a tre settimane di quarantena.
Tutto ciò ha fatto sì che il primo contagio ufficiale si registrasse solo il 10 marzo, e che si trattasse di una persona arrivata dall’estero. Un altro dato importante, infatti, è che attualmente tutti i casi positivi all’interno della Mongolia sono stati “importati”, per lo più, sembra, dalla Russia. Il 26 maggio, il premier Ukhnaagiin Khurelsukh ha dichiarato che le misure di quarantena resteranno in vigore fino a che non sarà disponibile un vaccino.
Coronavirus e Africa
Lo stesso, però, non possono fare molti stati dell’Africa, in cui la situazione è ancora più particolare. Il continente ospita alcuni fra gli stati più poveri del mondo, come Malawi, Burundi, Niger, Repubblica Centrafricana, ed è proprio in questi contesti che certe misure di contenimento rischiano di avere conseguenze gravissime, secondo alcuni analisti peggiori della pandemia stessa.
In base ai dati dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, infatti, circa il 71% della popolazione africana è impiegato nella cosiddetta economia informale. Si tratta di milioni di persone che vivono letteralmente alla giornata, basando il proprio sostentamento su scambi quotidiani, baratti e attività non continuative, che con un eventuale lockdown si troverebbero senza nulla da mangiare, oltre che senza risparmi su cui fare affidamento.
Chi rientra in questa fascia di povertà, per altro, spesso vive in abitazioni in cui è impensabile mettersi in quarantena, perché generalmente sono prive di acqua corrente, elettricità, non dispongono di spazi adeguati né delle elementari norme igieniche. Il sovraffollamento e la condivisione dei servizi igienici sarebbero solo un ulteriore veicolo di malattie e infezioni.
Tuttavia, l’Oms stessa ha dichiarato di recente che in Africa “il numero dei casi non è cresciuto alla velocità esponenziale di altre regioni e, fino a questo momento, non ha mostrato l’alta mortalità che si è vista in altre aree del mondo” e che ci si aspettava da un paese così “impreparato”, come lo riteneva l’opinione più diffusa. Al momento i morti accertati causati da Covid-19 sono poco più di 3000 in tutto il continente.
Certo, sono dati da prendere con cautela, considerato che la maggior parte dei paesi africani non dispone delle adeguate risorse per tenere traccia dei contagi. Ma è comunque evidente che i numeri sono molto inferiori rispetto alle aspettative. Innanzitutto, bisogna considerare che il coronavirus è particolarmente pericoloso per gli anziani, mentre più del 60% della popolazione africana ha meno di 25 anni.
I paesi africani, poi, hanno tendenzialmente meno comunicazioni e scambi gli uni con gli altri e una densità di abitanti inferiore a quella europea o asiatica (con le dovute eccezioni: la Nigeria, per esempio, il più popoloso paese africano, ha una densità superiore a quella italiana). Inoltre, la consapevolezza di disporre di sistemi sanitari deboli, e l’aver recentemente affrontato altre epidemie, come quella di ebola, hanno spinto le amministrazioni ad agire subito e in fretta, al contrario di altri stati più ricchi e sviluppati in cui le esitazioni iniziali sulle misure di contenimento hanno provocato ulteriori danni.
Il Ghana, 30 milioni di abitanti, ha registrato il primo caso lo scorso 12 marzo, e da allora ha iniziato una capillare attività di tracciamento, che ha portato a testare 161 mila persone, identificare circa 6 mila casi e registrare solo 32 decessi legati al Covid-19.
America: nuovo epicentro della pandemia
Numeri bassi e azioni tempestive caratterizzano anche quei paesi (pochi, per la verità) del continente americano che sono riusciti a contenere la diffusione del contagio e i suoi effetti. Nonostante il fatto che il Sud America stia diventando il nuovo epicentro della pandemia, infatti, ci sono alcuni paesi in cui il virus non è sfuggito al controllo delle autorità sanitarie e le morti a lui riconducibili sono limitate.
Un controllo della temperatura a campione per le strade di Asuncion
Al 29 maggio, la Guyana segnala 139 contagi e 11 decessi, la Guyana Francese 409 contagi e 1 decesso,
mentre il Paraguay, che è stato il primo della regione a decretare il lockdown dal 17 marzo, sospendendo i voli internazionali e chiudendo le frontiere, solo 11 morti per coronavirus a fronte di 900 casi totali accertati. A tenere alta la guardia, come ha dichiarato il ministro della Salute Julio Mazzoleni, ha contribuito anche il fatto di non sottovalutare il rischio derivante dal confinare col Brasile, paese in cui l’epidemia si sta diffondendo a macchia d’olio.
Ancora migliore la situazione del Suriname, che ha registrato il primo caso, importato dai Paesi Bassi, a metà marzo, e ha subito chiuso le frontiere. Si potrebbe obiettare che è un paese piccolo e poco popolato, quindi sembra quasi ovvio che abbia contenuto bene l’epidemia, tuttavia, a fronte di quasi 600 mila abitanti, registrare solo 12 casi e 1 decesso è un ottimo risultato.
Oceania e coronavirus
Tornando all’Oceania, sarebbe ingiusto attribuire le risposte positive di alcuni paesi al solo fatto di essere piccole isole e quindi “naturalmente” difese. Ne è un buon esempio la Papua Nuova Guinea, che ha registrato il primo caso di contagio il 20 marzo, e da lì ha subito attivato un call center a cui la popolazione potesse fare riferimento per ogni segnalazione e informazione.
Così facendo, le autorità sono riuscite a monitorare i focolai e intervenire in modo mirato, fattore importante per un sistema sanitario che può contare su poche risorse e che è già stato messo a dura prova da altre malattie a larga diffusione, come poliomielite, malaria, febbre dengue, tubercolosi. Ma in un certo senso, anche questo ha aiutato, poiché le risorse sono poche, sì, ma si è già preparati a impiegarle tempestivamente e vengono recepite bene dalla popolazione. Insomma, tutto ciò ha portato ad avere, su una popolazione di 9 milioni di abitanti, solo 8 casi accertati e 0 decessi.
La situazione in Europa
In Europa non si registrano paesi in cui il coronavirus non si sia diffuso e non abbia mietuto vittime. Si potrebbe forse citare l’esempio di Svalbard e Jan Mayen, isole norvegesi che dichiarano 0 casi e 0 morti, ma che sono tuttavia territori amministrati dalla Norvegia, e contano meno di 3000 abitanti totali, con l’isola Jan Mayen che non ha residenti permanenti.
Insomma, sembra che il Vecchio Continente, ma sarebbe meglio includere tutto l’Occidente, abbia molto da imparare dagli esempi fin qui elencati, che spesso si riferiscono a stati forse sottosviluppati, di certo sottovalutati. Paesi come Italia e Stati Uniti hanno inizialmente avuto la presunzione di essere immuni dal “virus cinese”, rendendosi conto troppo tardi che ricchezza e ottimi sistemi sanitari non ne avrebbero impedito la diffusione.
Una volta accertata, con colpevole ritardo, la gravità della situazione, hanno poi agito lentamente, in modo a volte contradditorio e senza pianificazione, basando le azioni di contenimento su strategie economiche, che, pur più o meno legittime, non si sono sempre rivelate vincenti nell’affrontare una situazione che ha colpito in primis la salute fisica e mentale di tutta la popolazione, anche di quella non direttamente contagiata dal virus.
Insomma, l’emergenza non è ancora finita, ma c’è già molto su cui riflettere e da cui imparare, per farsi trovare più preparati la prossima volta. Perché, sì, ormai dovrebbe essere evidente: ci sarà una prossima volta.