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Esteri
Taiwan 2020/ Hong Kong, trade war, diritti civili: i fattori che spingono Tsai

Fino a un anno fa sembrava impossibile. A metà del suo mandato, Tsai Ing-wen e il Democratic Progressive Party (DPP) sembravano aver deluso tutti, o quasi. La batosta alle elezioni locali l'aveva portata a lasciare la guida del partito. Il gradimento nei suoi confronti era sceso da quasi il 70 per cento nel momento della vittoria alle presidenziali del 2016 fino al 26 per cento, secondo il broadcast TVBS. Praticamente la metà, il 48 per cento, dei cittadini disapprovava la sua performance alla guida di Taiwan. L'assenza di crescita economica e i salari minimi praticamente bloccati ai livelli di 15 anni prima avevano messo contro di lei sia le imprese sia i lavoratori. Persino Kaohsiung, storico feudo DPP, era appena finito nelle mani di Han Kuo-yu, colui che qualche mese più tardi sarebbe diventato il candidato presidente del Kuomintang (KMT).

Il tutto mentre le tensioni con la Cina continuavano a crescere per il rifiuto di Tsai e del suo partito di riconoscere il "consenso del 1992", che stabilisce il principio dell'unica Cina ("senza stabilire quale", afferma il Kuomintang che si richiama al principio delle "diverse interpretazioni"). Lo scorso maggio i sondaggi davano Han (che ancora doveva vincere le primarie del KMT contro il miliardario Terry Gou, patron di Foxconn) in vantaggio di oltre 17 punti. 

Tutto finito? Macché. A 24 ore dalle elezioni presidenziali e legislative di sabato 11 gennaio sembra quasi impossibile pensare che Tsai non venga rieletta. Che cosa è successo nel frattempo? A ribaltare la situazione ci sono stati diversi fattori tra cui la postura assertiva della Cina, i fatti di Hong Kong, la trade war e i diritti civili. Probabilmente in questo ordine di importanza. Un misto di fattori esterni "favorevoli" e di azioni interne ha ribaltato la situazione, complice un'abile strategia comunicativa che è riuscita a esaltare il ruolo di Tsai come garante di Taiwan nei confronti di Pechino, mentre Han ne è stato dipinto come troppo vicino, complice il suo viaggio a sorpresa al Liaison Office di Hong Kong dello scorso febbraio. 

I tratti di Tsai che un tempo la facevano apparire distante dai cittadini sono stati smussati: la freddezza è diventata compostezza, il distacco è diventato fermezza. E si è cercato di avvicinare la sua immagine ai giovani, che il DPP vede come proprio principale pubblico di riferimento (anche se i più giovani in realtà non sembrano del tutto persuasi). All'interno di questa "narrazione" ha dunque trovato posto la legalizzazione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso, che ha aumentato il riconoscimento dei diritti civili a Taiwan, esaltandone il ruolo democratico all'interno della regione. Un passo che ha fatto alzare più di qualche sopracciglio, soprattutto nelle province meno urbanizzate, ma che ha aumentato il soft power di Tsai e di Taipei, nonostante i critici dall'altro lato dicono che la legge debba essere ulteriormente migliorata.

Uno dei punti di svolta potrebbe davvero essere stato quello della crisi di Hong Kong. Lo scorso giugno, quando iniziano le proteste di massa nell'ex colonia britannica, l'andamento dei sondaggi ha iniziato a cambiare in maniera drammatica. Il vantaggio di Han si è assottigliato rapidamente e ad agosto c'è stato il sorpasso che ha portato Tsai ad avere anche oltre 20 punti di distacco sul rivale. Il 28 novembre Han ha chiesto ai suoi elettori di non contribuire ai sondaggi e dunque le ultime rilevazioni compiute prima del silenzio elettorale potrebbero ricevere qualche smottamento dalle urne, ma secondo Nathan Batto dell'istituto di Scienze Politiche dell'Academia Sinica "cambierà poco. Tsai ha un vantaggio importante che può essere riassunto in questo dato: la soddisfazione nei suoi confronti è cresciuta dal 20,9 per cento del 2018 al 51,4 per cento di adesso".

Ma in realtà Tsai stava crescendo anche prima, a partire dalla sua reazione ferma al discorso del 2 gennaio 2019 del presidente Xi Jinping sulla "inevitabilità della riunificazione" ha rimesso il "fattore Cina" al centro del dibattito politico taiwanese, come spesso accaduto prima delle presidenziali. In questo scenario Tsai, pur non avendo la "calda" oratoria di Han (o forse proprio per questo), è riuscita a presentarsi come protettrice dei cittadini, che con il passare del tempo si sentono sempre più taiwanesi. Secondo l'ultimo sondaggio del Commonwealth magazine, l'82,4 per cento delle persone tra i 20 e i 29 anni si identifica come "taiwanese", mentre praticamente il 90 per cento ritiene il modello "un paese, due sistemi" applicato a Hong Kong come non auspicabile per Taiwan.

L'assertività di Pechino e i fatti di Hong Kong hanno per ora avvantaggiato Tsai grazie anche ai dati economici del 2019 e alle previsioni sul 2020, che fanno segnare una ripresa per certi versi inaspettata.  La crescita del 2019 dovrebbe attestarsi sul 2,5 per cento e accelerare leggermente nel 2020. Merito anche (se non soprattutto) della trade war tra Stati Uniti e Cina. La minaccia dei dazi americani sull'export cinese colpisce infatti soprattutto il comparto tecnologico, vale a dire quello dove le imprese taiwanesi sono storicamente più forti, nonché più attive proprio sulla Cina contientale. Ecco che allora per evitare le tariffe, oltre 150 imprese taiwanesi hanno riportato la loro produzione sull'isola con il ritorno di diverse centinaia di miliardi di dollari taiwanesi. 

Insomma, per una combinazione di fattori Tsai dovrebbe essere rieletta. Ma che il DPP riesca a mantenere la maggioranza allo Yuan legislativo non è per niente scontato. Se non dovesse farcela il secondo mandato di Tsai si prospetta molto complicato.

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