Esteri

Etiopia, nel Tigray una guerra su due fronti: militare e mediatico

di Marilena Dolce

L’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti dell’uomo accetta la richiesta etiope per un’indagine congiunta sulle conseguenze umanitarie del conflitto

“Il fantasma del regime repressivo del Tplf (Tigray People’s Liberation Front) durato 27 anni continua a tormentare il Paese”, cioè l’Etiopia. Così si legge in una nota confidenziale redatta da Undp, (United Nations Development Programme) firmata da Achim Steiner e pubblicata dal Foreign Policy lo scorso 16 febbraio.

Homo homini lupus direbbe Hobbes, che ben conosceva i peggiori istinti umani, per spiegare l’attacco del Tplf al governo federale di Addis Abeba. Di fatto un blitz, continuato subito dopo sul piano politico e, soprattutto, mediatico.

Per capire l’accaduto è necessario partire per prima cosa dalla geografia, poi dalla storia recente. Innanzitutto la regione dove si è svolto lo scontro tra Tplf e governo federale è il Tigray, non il Tigrè, come spesso si scrive. Questo era il nome della regione durante i cinque anni di colonialismo italiano. Oggi invece indica un’etnia eritrea, non la regione a nord dell’Etiopia.

Etiopia, la regione del Tigray, capoluogo Mekelle

La storia del Tplf al governo comincia invece nel 1992, quando Meles Zenawi, capo del partito e vincitore nella lotta contro la giunta del colonnello Menghistu Hailè Mariam, instaura nel paese un federalismo etnico. Nella nuova coalizione governativa, l’Ethiopian People's Revolutionary Democratic Front,(EPRDF), avrebbero dovuto sedere tutti i rappresentanti delle diverse comunità etniche, come stabilito nel 1995 dalla Costituzione. In realtà non andrà proprio così. I tigrini del Tplf, nonostante siano un’etnia minoritaria nel paese, saranno sempre in maggioranza al governo. Al contrario, amhara e oromo, etnie più numerose, resteranno in minoranza.

Si forma, come viene detto, una democrazia “imperfetta”, con elezioni ma nessuna reale democratizzazione. Il potere resta nella mani dell’élite tigrina che governa da Addis Abeba.

Comunque il governo di Meles, come precedentemente quello dell’imperatore Hailè Selassiè, riceve il forte sostegno dell’Occidente che considera tra l’altro l’Etiopia un importante baluardo cristiano contro il terrorismo islamico.

Qualcosa però si incrina nel 2016, quando Hailemarian Desalegn, successore di Meles morto nel 2012, non riesce più a controllare lo stato di crisi e il fortissimo malcontento popolare. Scrive in quegli anni l’analista di Atlantic Council, Bronwyn Bruton che “i recenti accadimenti in Etiopia mettono a nudo la brutalità e l’instabilità di un governo che gli Stati Uniti hanno usato per anni come alleato nella regione. Negli scorsi mesi più di 500 dimostranti sono stati uccisi dalle forze dell’ordine etiopiche nelle strade delle regioni Oromo e Amhara”.

Il cambiamento vero arriverà però solo nell’aprile 2018 quando nel Paese, dove vige lo stato d’emergenza, diventa premier Abiy Ahmed, un politico appartenente in parte all’etnia oromo in parte a quella amhara.

Abiy è un militare giovane e molto preparato. Un uomo che piace all’interno e all’estero. L’anno successivo riceverà infatti il premio Nobel per la pace. Motivo principale del riconoscimento aver firmato ad Asmara la pace con l’Eritrea, interrompendo così il ventennale gelo tra i due paesi.

Finalmente Eritrea ed Etiopia avrebbero ripreso le relazioni, commerciali e umane. Per l’Eritrea termina la difficile condizione di “non guerra non pace” ereditata dal mancato rispetto dell’Accordo di Algeri da parte etiopica, una conseguenza dello scontro del 1998-2000.

Di colpo le firme del presidente dell’Eritrea Isaias Afwerki e del primo ministro etiopico Abiy Ahmed, modificano le relazioni politiche di diritto ma, ancora una volta, non di fatto.

Lo scontro tra Eritrea ed Etiopia era stato provocato, almeno formalmente, dalla rivendicazione etiopica di una striscia di terreno, comprendente la città di Badme, al confine tra Tigray ed Eritrea. Si tratta di vecchi confini coloniali tracciati con il righello e probabilmente imperfetti, non diversamente da molti altri.

Tuttavia il Tplf non vuole che il confine dell’Eritrea indipendente sia, sul fronte del Tigray, la zona intorno a Badme. Verosimilmente non per l’importanza del territorio in sé, ma per il progetto del “Grande Tigray” che dovrebbe comprendere i territori dell’attuale Eritrea e quelli dell’Etiopia, che condividono lingua tigrina ed etnia. Secondo questi parametri nel “Grande Tigray” rientrerebbero l’Eritrea dall’altopiano al porto di Assab oltre al Tigray stesso separato dall’Etiopia.

Tigray, Etiopia, passaggio dei tigrini verso i campi in Sudan

Comunque sia, sta di fatto che nel 2018, dopo la rappacificazione con l’Eritrea, il Tplf, partito che governa il Tigray, decide di non smobilitare militarmente le aree contese. Per intendersi, quando il premier Abiy ordinerà all’esercito, dopo la firma ad Asmara, di ritirarsi dal territorio, il Tplf dirà alla gente del posto di sdraiarsi lungo le strade. I soldati e i loro mezzi non avrebbero potuto passare, se non sui loro corpi. Abiy Ahmed quindi sospende l’operazione.