Esteri

Germania, governo ed economia appesi a un filo. Politiche fallimentari, una crisi che parte da lontano

di Enrico Verga

Per comprendere l’attuale caos tedesco si deve fare un passo indietro nella storia economica, sociale e politica

Germania in crisi, la teoria del caos si dispiega totalmente

La teoria del caos è una delle teorie più affascinanti, e per certi versi esoteriche, che l’uomo ha mai creato. Inizialmente questa teoria venne spiegata dal meteorologo e matematico Edward Lorenz nel titolo di un suo articolo del 1972: “Predictability: does the flap of a butterfly’s wings in Brazil set off a tornado in Texas?”. Nell’analisi il battito delle ali della farfalla in Brasile è rappresentativo di un qualsivoglia piccolo cambiamento nelle condizioni iniziali del sistema, che conduce a conseguenze su scale più grandi.

Le notizie negative dalla Germania, ex motore d’Europa, continuano a percolare nei media italiani con sistematica precisione: prima le banche, poi il voto popolare ad un partito un filo nazionalisti, il crollo della produzione industriale e ora i tagli pianificati nella più grande azienda di auto teutonica. Sono tutti elementi causali oppure la teoria de caos può venirci in aiuto per collegarli e, plausibilmente, delineare quelli futuri, o futuribili? Facciamo una riflessione.

Forza lavoro depauperata

Per comprendere l’attuale caos tedesco si deve fare un passo indietro nella storia economica, sociale e politica tedesca. Dal dopo-guerra la Germania, terra di grandi scienziati, ingegneri, si diede una spinta. Grazie al piano Marshall la ricostruzione e la rigenerazione di aziende belliche fu rapida. Dopo aver prodotto gas per i campi di concentramento il conglomerato IG Farben si divise in grandi gruppi chimici e farmaceutici come BASF e Bayer.

Porsche, Volkswagen e Mercedes riconvertirono le produzioni: dai carri armati alle auto di grande qualità. Le “Big Tech” del dopo guerra come IBM, la cui sede tedesca partecipò al sogno di Hitler, emersero come strutturali alla crescita e l’automazione della produzione tedesca.

Questo è lo storytelling classico, che tutti conoscono. Esiste un'altra storia, non segreta ma meno diffusa dai media e al popolo. Per mantenere il costo del lavoro basso, e per conseguenza la produttività oraria alta, la Germania adottò sistemi non dissimili a quelli della precedente decade. Immigrati, in particolare da nazioni un tempo alleate nelle guerre precedenti, come i turchi, vennero adottati come operai a costi molto ridotti.

Nel procedere della storia la Germania Occidentale dovette inglobare quella comunista, dopo il crollo del muro. Venne chiamato “miracolo tedesco”: la capacità di “integrare”, senza incidenti, un intero blocco sociale ed economico così distante. In vero fu un grande affare: i lavoratori ex comunisti della Ddr erano altamente specializzati: ingegneri, chimici, biologi vennero assunti dalle industrie della Germania di Schroeder a prezzi convenienti. Ancor di più le grandi aziende tedesche occidentali aprirono nuovi impianti nella Ex DDR, come la sopra nominata Volkswagen. Un affare per i produttori di auto e della filiera chimica, meccanica tedesca.

Un vanto da rivendersi sui media occidentali come successo per rinsaldare il mito di Germania come locomotiva europea che possiede soluzioni economiche per tutti. Ma per avere un prodotto economicamente competitivo la Germania puntò anche su prodotti di alta qualità, di filiera, prodotti con costi del lavoro più bassi, come in Italia. Una forza lavoro straniera, pagata il meno possibile, e le nuove generazioni, figli dei migranti arrivati per lavorare, sempre più insoddisfatti. Un primo elemento di caos.

Riforme per abbassare il costo del lavoro

Esauriti i bacini di lavoratori economici (come i migranti o gli ex cittadini DDR), nel 2003, quando il costo del lavoro in Germania rischiava di alzarsi arrivarono le riforme. Sotto il governo di Gerhard Schroeder vennero varate riforme del lavoro che, di fatto, lasciarono ampio spazio a contratti atipici e agenzie del lavoro.

Vi furono dei vantaggi significativi, tra cui un netto miglioramento delle statistiche di occupazione (quelle vantate sempre dal governo tedesco) ma a costo di un violento e continuo impoverimento. Un termine con cui i tedeschi hanno presto familiarizzato, dal 2003 è quello di working poor: pur lavorando hai contratti atipici, poca sicurezza, mutui per la casa inaccessibili e il governo che se ti va bene ti da qualche sussidio. Oggi questo termine è sinistramente familiare a molti lavoratori italiani.

E non dimentichiamo il part-time. Una formula all’apparenza ottima per conciliare vita personale e lavoro ma, sempre più spesso, appare una forma di sfruttamento contrattuale bello e buono.

Con questo scenario non stupisce che sia in forte crescita la disuguaglianza economica tra la popolazione. Da un lato lavoratori molto specializzati e “mini ricchi” (la ricchezza in Germania, salvo eccezioni, è “tramandata” di generazione in generazione, spesso è nascosta) che sono spesso legati alle Pmi. Dall’altro lato esiste una forza lavoro flessibile (per essere gentili), fluida e povera, da contrattare quando serve, ma sempre in crisi. In questo senso suggerisco il reportage in 3 episodi di DW.

Il miracolo fu di ottener una produzione di qualità con costi uomo lavoro modesti, il seme del caos fu di impoverire in modo sistematico e continuo per decenni il lavoratore medio tedesco, di fatto riducendo la sua capacità di acquisto e, negli ultimi tempi, inducendo anche la propensione all’indebitamento (termine alieno ai tedeschi parsimoniosi). Grazie al supporto del governo tedesco con una serie di benefit come lo stipendio minimo i lavoratori tedeschi scambiarono stipendi bassi (e basso potere di acquisto) per benefit di dubbio valore sul lungo termine. Un esercito di lavoratori poveri, a prescindere dalla loro provenienza, un secondo elemento del caos.  

Energia

La Germania per decenni ha sfruttato i suoi giacimenti di energia fossile ed economica. Ancora oggi le più grandi macchine per l’estrazione di lignite si trovano in Germania. Carbone e lignite sono combustibili abbondanti ed economici. Nel tempo la Germania ha aggiunto la variabile nucleare e quella fossile a base di gas, in particolare quello importato dalla Russia. L’ondata verde tedesca, con lo studio e lo sviluppo di pannelli solari, è durata alcuni decenni. La produzione tuttavia dei pannelli è stata abbandonata nel tempo a favore dell’industria cinese: più rapida ed economica.

La strategia tedesca di approvvigionamento energetico si è focalizzata sull’importazione di gas, meno inquinante e abbondante, da fonti russe. L’ex cancelliere Schroder, dopo la sua carriera politica, è divenuto un fervente sostenitore del gas russo (di fatto un dipendente del colosso statale russo). Il costo moderato di questa fonte energetica, e il milione di euro l’anno di consulenza da parte delle Russia (a Schroder), come spiega il NYT, hanno ulteriormente spinto la Russia in Germania.

Il suo successore, Merkel, ha abbracciato le forniture russe e a buon giudizio. Il costo del gas russo era in assoluto il più basso sul mercato. Inizialmente rifornito tramite i gasdotti di terra russi che passavano dalle ex repubbliche sovietiche, come l’Ucraina, la costruzione del Nord Stream 1 e 2 sono stati un balzo quantico che han permesso (o avrebbero permesso nel caso del NS2) di ottenere il gas senza pagare le tasse di passaggio agli ex stati sovietici. Solo per l’Ucraina la tassa di passaggio applicato dalla nazione era, ai tempi dell’inizio del conflitto ucraino russo, oltre 1 miliardo di euro l’anno. Tuttavia il successo di indipendenza energetica tedesca, e il suo naturale avvicinamento alla Russia era un problema per gli Usa.

Già nel 2015, in una conferenza al Chicago Council on Global Affairs, Friedman, fondatore di Stratfor, una delle testate di strategia più ascoltate dai politici americani, parlando dell’Europa spiegava che “il primordiale interesse degli Stati Uniti per il quale abbiamo combattuto due guerre mondiali e una guerra fredda sono le relazioni tra Russia e Germania, perché unite sono l’unica forza che potrebbe minacciarci”. Dopo 1 anno di coperture e fake news, che indicavano in Putin il mandante della distruzione del Nord Stream 1 e 2 si scopre che, come spiega il NYT, che il Nord Stream 1 e 2 sono stati distrutti da terroristi (civili) ucraini, con l’avvallo del comando militare e civile supremo (Zelensky) ucraini.

Una versione precedente dello stesso evento, spiegata da Seymour Hersh, includeva anche una partecipazione degli stati uniti. Hersh, un vecchio e rispettabile reporter di guerra, pur se oggi fuori dal sistema dei media ufficiali; premio Pulitzer estremamente accreditato presso l’industria media occidentale. La fine del Nord Stream 1 e 2, sono stati un colpo duro per l’industria tedesca energivora. A questi si deve aggiungere la violenta speculazione sul gas generata da una piccola entità finanziaria olandese, il TTF.

Il gas russo durante buona parte del conflitto, soprattutto nelle fasi iniziali, continuava a fluire verso l’Europa. Tuttavia le sanzioni europee comminate al settore finanziario russo, combinate con una politica mediatica talvolta poco neutrale, han favorito una speculazione sui futures del gas che ha danneggiato fortemente l’industria tedesca.

Pur con queste due gravanti la Germania ha continuato a sostenere l’Ucraina, a vantaggio delle relazioni con gli Usa (per la leadership tedesca) a svantaggio della popolazione teutonica. Popolazione tedesca ulteriormente depauperata, un altro seme del caos.

Materie Prime

Se l’energia no bastasse ricordiamo che anche le altre materie prime che giungevano dalla Russia sono state oggetto di attacco da parte della stessa UE. La Russia è in assoluto il più economico fornitore di materie prime di ogni sorta, dal Nickel al rame sino ai fertilizzanti. Parte della Germania è agricola: una cornucopia per l’industria agricola sfruttata nel tempo grazie a energia economica per i mezzi agricoli (e relativa filiera) e fertilizzanti economici sia importati dalla Russia che prodotti in loco, da colossi come BASF.

Con il blocco dei pagamenti alle banche russe, i fertilizzanti importanti sono decresciuti, mandando in crisi il comparto agricolo. La stessa BASF, disperata per il costo del gas, ha chiuso numerosi stabilimenti, spostando parte della produzione in Cina e altre nazioni.

Ultimo aspetto meno considerato da media occidentali il dumping commerciale di cereali ucraini sul territorio UE. L’Ucraina, con una tradizione agricola rilevante, durante il conflitto ha potuto esportare cereali grazie a broker turchi. Inizialmente la maggioranza di questi prodotti doveva essere destinati ai paesi poveri. Una grande campagna mediatica aveva spiegato come l’Ucraina, impossibilitata all’esportazione, avrebbe involontariamente affamato i paesi del terzo mondo. Grazie alla mediazione di Erdogan, i broker turchi hanno esportato milioni di tonnellate di cereali. Sfortunatamente una gran parte di questi si sono “persi” in Europa. Di fatto la maggioranza dell’export agricolo ucraino, durante il conflitto ucraino, è finito sui mercati europei.

Privi di dazi e prodotti con standard più economici rispetto a quelli europei, sono divenuti un fattore preoccupante per molti agricoltori europei, tra cui quelli tedeschi. Gli agricoltori tedeschi han preso le piazze e, unendosi agli altri agricoltori di Polonia, Ungheria, hanno marciato sia sulle loro capitali che su Bruxelles per lamentarsi. Lo stesso han fatto gli allevatori di ovini e suini, egualmente colpiti dall’aumento, per speculazione, del cibo per animali. Come conseguenza di importazioni di cereali dall’Ucraina. Classe media e comparto agricolo, e relative filiere, ulteriormente danneggiate dalle scelte della leadership politica. Un aggiuntivo seme del caos.

Export spinto agli estremi

Sempre più nelle decadi post guerra mondiale la Germania ha investito nell’espansione dei propri mercati esteri. Dal crollo del muro poi l’attenzione della nazione si è rivolta a est. Il primo partner commerciale tedesco è l’agglomerato dell’Unione Europea con circa 1 trilione di dollari (dati 2022). Ma fuori della UE e paesi limitrofi il più grande sbocco commerciale è il cluster asiatico, con un quasi 40% di export verso la Cina.

I dati del 2022 non indicano tuttavia l’evoluzione degli ultimi due anni: dalla riduzione dei 15 miliardi di export verso la Germania alla decrescente fetta di export verso la Cina. Il modello di sviluppo tedesco, basato fortemente su un disavanzo della bilancia commerciale, a favore dell’export. Il costo dei prodotti tedeschi, con un costo del lavoro contenuto e un costo energetico basso, ha permesso alla Germania nel tempo di divenire la locomotiva d’Europa.

Tuttavia venuti meno i due fattori di vantaggio l’export tedesco, con costi maggiorati, sempre più deve competere con i prodotti asiatici dove prima esportava con successo. Aziende e filiere di Pmi tedesche sempre più sotto pressione, e i dipendenti di queste aziende sempre più precari e insoddisfatti. Altro seme del caos.

La politica

La crescita negli ultimi anni del partito nazionalista tedesco, AfD è un’evoluzione politica relativamente nuova nel tessuto sociale politico tedesco post guerra mondiale. Per anni la Germania è stata una nazione altamente moderata. Il tedesco medio è gentile, schivo, formale. Tuttavia nelle decadi il mondo del lavoro tedesco, scosso da perdita di capacità di acquisto e stipendi sempre più ridotti, ha iniziato a riflettere sulla capacità dei suoi governanti di generare valore. La vita “modesta” della classe media tedesca è sempre più a rischio.

Specialmente nelle regioni ex DDR: a fronte di un’esplosione del lavoro post unificazione, le regioni hanno visto una crescente depauperamento del potere di acquisto. La notizia di questi giorni di VW di ridurre la forza lavoro, financo chiudere gli impianti, nelle aree ex Ddr è l’ulteriore conferma, per la popolazione, che la leadership politica di centro (a volte centro destra a volte centro sinistra) non è in grado di difendere i loro interessi. Di qui la forte crescita di AfD in molte aree della Germania. Con l’impoverimento crescente di tutte le classi sociali, agricoltori, operai etc. non sorprende la crescita di AfD.

Tutti gli elementi sopra elencati stanno convergendo verso una crisi tedesca che rischia di incrinare non solo la capacità tedesca di essere la “locomotiva d’Europa” ma anche la sua politica nazionale e internazionale. Con un crescente posizionamento del popolo verso la destra, o estrema destra, l’equilibrio della UE, che ha sempre visto la Germania come maggior propulsore di moderazione, austerità verso i paesi “spendaccioni” (come i PIIGS) e equilibrio geopolitico rischiando venire meno. Il caos tedesco è servito, sarà solo l’inizio

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