Esteri

Israele e quella quiescenza occidentale che ricorda i tempi di Hitler

di M Alessandra Filippi

La quiescenza occidentale verso Israele ricorda quella usata da Francia e Gran Bretagna nei confronti della Germania nazista

Israele e quella quiescenza occidentale che ricorda i tempi di Hitler

A un anno di distanza dal 7 ottobre, gli “esperti” ancora si chiedono, ribalzandosi l’un l’altro la domanda, quando il conflitto “a bassa intensità” in Medioriente diventerà una guerra regionale. Innanzitutto, quello che i commentatori si ostinano a definire “conflitto a bassa intensità”, in 12 mesi, solo a Gaza ha ucciso 42.000 palestinesi, mutilato migliaia di bambini, ferito e disperso oltre 110.000 persone, e ridotto in polvere e macerie l’85% della Striscia. In un anno Israele ha fatto tabula rasa in quella lingua di terra. Dell’antica via Maris e della città di Gaza, vecchia di millenni, non resta più nulla.

Anche tutti i siti archeologici sono stati sbriciolati dalle bombe; i cimiteri distrutti dai bulldozer e profanati dai militari israeliani; chiese antiche quanto il cristianesimo ridotte a monconi; delle antiche moschee non restano che relitti, spiaggiati come balene sulle insanguinate sabbie di Gaza. E in Cisgiordania, da ieri i raid li fanno con gli F16, ammazzando palestinesi a decine con un colpo solo. Carri armati, bulldozer, fanteria e droni fanno il resto.

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Dopo aver aperto fronti su tutta la rosa dei venti, inclusa la tentata invasione del Libano, dove in poco meno di 1 settimana Israele, con tattiche di terrorismo di massa e pesanti bombardamenti, ha ucciso oltre 2000 cittadini libanesi, ne ha feriti qualche migliaio e costretto all’evacuazione oltre un milione di abitanti, secondo Netanyahu, si è giunti alla “soluzione finale”. Dichiarazione che riecheggia quella dei nazisti quando si trattò di risolvere la cosiddetta “questione ebraica”, dopo che l’ipotesi di deportarli tutti nell'isola del Madagascar si dimostrò impercorribile. Fotocopia sembra essere anche la quiescenza con la quale l’Occidente, Stati Uniti in testa, accoglie ogni violazione israeliana.

Condiscendenza che ricorda quella usata nei confronti della Germania nazista sia dalla Francia che, soprattutto, dalla Gran Bretagna. Furono infatti gli inglesi, fin dal 1938, a promuovere nei confronti di Hitler la strategia dell’Appeasement, una negoziazione diplomatica nell’ambito della quale, per scongiurare una nuova guerra, gli vennero fatte concessioni politiche, materiali e territoriali. Il tentativo di pacificazione del quale fu paladino e interprete il Primo ministro britannico Neville Chamberlain, in carica dal 1937 al 1940, come tutti sappiamo si risolse in un tragico fallimento.

Il testimone dell’Appeasement britannico, e non solo quello, passa dal Governo di sua Maestà a quello degli Stati Uniti d’America a partire dal 1942, anno in cui anche la Lobby sionista si accorge che il palcoscenico della storia da Londra si è spostato a New York. La data con la quale si fa coincidere questo evento storico è l’8 dicembre 1941. Quel giorno, all’indomani dell'inaspettato attacco aereo giapponese alla flotta americana ancorata a Pearl Harbor, il Congresso degli Stati Uniti dichiara guerra al Giappone, e la Germania e l’Italia agli USA. La guerra, fino ad allora confinata all’Europa, diventa a quel punto mondiale.

Il primo rilevante contributo del governo americano alla causa sionista viene offerto dal presidente Truman, succeduto a Roosevelt del quale era vice, a cui si deve la scelta di riconoscere il nuovo stato di Israele tre minuti dopo la proclamazione della sua nascita. Una decisione alla quale devono aver contribuito le pressioni esercitate su di lui dall’amico di una vita, Edward Jacobson, sionista della prima ora di origini ebraiche, che lo convinse a incontrare il vecchio leader sionista Chaim Weizmann due mesi prima del fatidico 14 maggio 1948. È a partire da quel che momento che la politica dell’Appeasement viene applicata allo Stato ebraico senza interruzione, fatte salve piccole eccezioni, come la crisi del Canale di Suez del 1956, una delle rare volte in cui apertamente furono in disaccordo.  

In seguito, non fu più così. Soprattutto a partire da Lyndon B. Johnson, vice del presidente John F. Kennedy, ricordato dai più per essere diventato presidente dopo il suo assassinio a Dallas, poi eletto nel 1964 grazie a una campagna elettorale d’effetto, curata dal guru della comunicazione e della pubblicità Bill Bernbach.

Geniale americano di origini ebraiche, Bernbach è stata la mente e uno dei tre fondatori della DDB, oggi nota come DDB Worldwide Communication Group, parte della Omnicom Group, costituita nel 1986 da Allen Rosenshine, Keith Reinard e John Bernbach, figlio di Bill, fra le prime quattro compagnie mondiali di pubblicità. Con più di 75.000 impiegati, sparsi in oltre 70 nazioni, è una “corazzata Potemkin” della comunicazione e del marketing, con base a New York, in grado di raggiungere con i loro prodotti pubblicitari miliardi di persone. E come sappiamo, la comunicazione è cruciale.

Quella stessa politica inaugurata da Truman, consolidata da Johnson, perfezionata da Henry Kissinger, nato in Germania e figlio di una coppia tedesca scappata in America in seguito alle Leggi razziali, Segretario di Stato degli Stati Uniti durante le presidenze di Richard Nixon e di Gerald Ford tra il 1969 e il 1977, dopo decadi di laborioso e incessante lobbismo, oggi è arrivata a compimento con Biden.

Da 365 giorni dimostra nei confronti di Netanyahu e del suo governo di fanatici estremisti un incondizionato appoggio, quando non una totale subalternità e sottomissione. Icastica, in questo senso, è stata la prima dichiarazione in diretta streaming da Tel Aviv del Segretario di Stato americano Antony Blinken, in visita all’indomani del brutale attacco di Hamas del 7 ottobre.

“Sono qui davanti a voi non solo come Segretario di Stato degli Stati Uniti, ma come ebreo, come padre, come marito”. Non cosa di poco conto. Così come non è di poco conto il fatto che buona parte delle figure apicali del governo Biden è di origine ebraica. Anche una discreta parte di senatori, per lo più repubblicani, esponenti di spicco della comunità cristiano evangelica di stampo messianico sono ferventi sionisti e da decenni supportano Israele e il suo progetto inviando milioni di dollari.

Con buona probabilità, alla Casa Bianca per la prima volta non si eleggerà il Presidente degli Stati Uniti ma il Proconsole di Israele. Solo se si guardano da questa prospettiva gli Usa, e con loro l’Occidente, si può comprendere come sia possibile che da oltre 12 mesi Netanyahu si sia potuto far beffa di tutto e di tutti, e con il loro consenso abbia mandato a gambe all’aria il Diritto Internazionale, i Diritti umani, la struttura legislativa e le regole sulla quale si basava il mondo prima del 7 ottobre.

Solo trovando il coraggio di riconoscere l’esuberante espansione del movimento sionista negli Stati Uniti e accettare la sua fine come attore protagonista, una metamorfosi che oggi relega gli USA a ruolo di spettatore, esecutore di ordini, si può spiegare l’evidente doppio standard che sconcerta molta parte dell’opinione pubblica mondiale e che si esplicita soprattutto in quello utilizzato nella narrazione della Guerra “su” Gaza e di quella “in” Ucraina, con i relativi doppi standard nelle reazioni.

Nella prima, due milioni di civili indifesi e inermi, intrappolati dentro la più grande prigione a cielo aperto del mondo, sono bombardati e massacrati da 365 giorni da una nazione che in nome di un “diritto a difendersi”, spacciandosi come vittima quando in realtà è un aggressore, prosegue un genocidio e una pulizia etnica con l’avvallo e l’appoggio di Usa e Europa, le quali non smettono di armarla fino ai denti. Nella seconda, l’invasore russo è stato stigmatizzato fin dal primo minuto, sanzionato da mezzo mondo, oltre che dalle Corti Internazionali e dalle Nazioni Unite, financo cancellando corsi di studio nelle università e bandendo dalle sale da concerto i compositori russi del XIX secolo.

Putin ha un mandato di cattura internazionale sulla sua testa per Crimini di guerra e Crimini contro l’umanità. La Corte Penale di Giustizia ha fatto la stessa richiesta anche per Netanyahu e il suo ministro della Difesa, Yoav Gallant, unitamente ai capi di Hamas, due dei quali nel frattempo sono stati uccisi da Israele. Per tutta risposta, il Procuratore capo Karim Ahmad Khan, si è visto recapitare una lettera di intimidazione firmata da dodici senatori repubblicani americani, nella quale lo minacciano di “dure sanzioni” e di “prendere di mira” la Corte penale. In un video uno di loro lo minaccia anche di morte. Vero e proprio terrorismo di stato.

La farsa delle trattative per scongiurare l’escalation, ormai compiuta, ha trovato la sua acme quando Netanyahu, nel suo ultimo intervento all’Onu, armato di mappe geografiche formato A4, alla sparuta platea di scolaretti rimasta ad ascoltarlo, ha spiegato: "Siamo nel mezzo di una dura guerra contro l'asse del male dell'Iran, che cerca di distruggerci. Questo non accadrà, perché saremo uniti e, con l'aiuto di Dio, vinceremo insieme". E poi, dopo aver spiegato in modo orwelliano quali paesi arabi sono buoni e quali sono cattivi, dimenticando che l’Iran non è arabo, rivolgendosi al popolo iraniano ha vaticinato.

“Presto sarete liberati”. Pur non simpatizzando per un regime fondamentalista come quello degli Āyatollāh in Iran, vien da chiedersi con quale diritto il capo di governo di uno Stato colonialista che da oltre mezzo secolo pratica l’apartheid e da oltre 76 è protagonista della più lunga e disonorevole pulizia etnica della Storia moderna, e oggi si trova sull’orlo di una guerra civile, possa promettere libertà a un altro popolo, nella fattispecie a quello coltivato e fiero persiano.

Demonizzare il nemico e disumanizzare i nativi. Questa è una vecchia tattica di Israele, che è bravissimo a scaricare sull’uno e sull’altro i mali dei quali è causa, salvo poi dipingersi come vittima dell’uno e degli altri. È diventato virale il video del ministro egli esteri libanesi Habib, nel quale dichiara che “c’era un accordo con Israele, raggiunto con il supporto della Francia e degli Stati Uniti, per un cessate il fuoco di 21 giorni, accettato anche da Netanyahu”.

Poi lui è partito per New York e da lì ha dato ordine di attaccare Beirut e uccidere Nasrallah. Tutto questo con il benestare dell’ormai pensionato presidente americano e quello della ben più vigorosa e spumeggiante vicepresidente Kamala Harris, candidata a succedergli, portatrice di ventate di novità e cambiamenti che, qualora venisse eletta, garantiranno che tutto rimanga come è, nel solco del migliore gattopardismo. Lo stesso vale qualora a vincere fosse Trump.

In attesa di scoprire se sarà anche la prima donna presidente degli Stati Uniti, val la pena sapere che il marito di Harris, oltre ad essere il primo Second Gentleman nella storia della Nazione, nel sito ufficiale della casa Bianca viene descritto anche come “il primo marito ebreo di un vicepresidente americano”, e più avanti si legge che “in questi anni non ha mancato di condividere la sua eredità e cultura ebraica con la nazione: dalla celebrazione dell'Hanukkah alla Casa Bianca all'affissione delle Mezuzah sugli stipiti della residenza del vicepresidente”.

Una biografia che oltre a tratteggiare la sua trentennale esperienza come avvocato, “che ha a cuore la giustizia e l'uguaglianza nel sistema legale”, e i corsi di giurisprudenza che tiene presso il Georgetown University Law Center, racconta come sia diventato “una voce guida nella lotta all'antisemitismo” e come “ha contribuito a guidare la prima strategia nazionale dell'amministrazione per contrastarlo”.

La guerra è iniziata, e da un pezzo. Ed è entrata in una nuova fase il giorno in cui Israele ha invaso il Libano, nell’impunità totale, violando il confine di uno Stato sovrano. L’ennesimo abuso. Un altro schiaffo al Diritto Internazionale e Umanitario, certamente non l’ultimo. Perché, siamo onesti, diciamolo una volta per tutte: quella di Israele è una sporca, crudele, sadica e pericolosissima guerra, funzionale a mascherare un progetto che va avanti dalla Seconda Guerra Mondiale, da ancora prima che con ricatti e minacce riuscisse a strappare la Risoluzione 181 che ne ha permesso la nascita: la pulizia etnica dei palestinesi, a Gaza come in Cisgiordania, e forse oltre. L’eliminazione dei nativi, la loro eradicazione, quello è l’obiettivo.

Con un’accusa di “plausibile genocidio” accolta dalla Corte internazionale di Giustizia, Israele, e con lui Stati Uniti e Europa che lo sostengono e gli forniscono le armi con le quali sta sterminando un popolo, saranno giudicati per le loro azioni e i loro crimini, dal mondo, dai tribunali e dalla Storia. Il progetto sionista della Grande Israele, che ha trasformato gli Usa in una colonia dello Stato ebraico e vorrebbe riscrivere le carte geografiche del Medioriente non ha futuro. Le guerre non si vincono con altre guerre ma cercando la pace col proprio avversario. È la Storia a insegnarcelo: non si governa a lungo dando la morte e seminando odio ma facendo dono della vita e della concordia.

 

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