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Esteri
Israele e la Risoluzione 181 votata dalle Nazioni Unite che ha dato inizio alla Nakba
Roma - Manifestazione organizzata dalla comunità ebraica di Roma contro l'antisemitismo e il terrorismo e pace in Israele

Israele e la Risoluzione 181 votata dalle Nazioni Unite che ha dato inizio alla Nakba

Potrei iniziare questo articolo con l’ennesima tragica conta dei morti e delle distruzioni. Con l’analisi del gioco delle parti, interpretato da Biden e dal suo governo sionista, e dal suo omologo israeliano, a capo del più estremista e guerrafondaio governo della storia della Stato ebraico. Potrei seguire spiegando, nel dettaglio, perché l’uno e l’altro sono due facce della stessa medaglia e finire col dimostrare che sono la stessa cosa. Che le prossime elezioni negli Stati Uniti non sono quelle per il presidente degli Usa ma per l’elezione del proconsole di Israele.

Perché ormai è chiaro chi è la controllata e chi il controllore. Una lunga metamorfosi iniziata con Truman, perfezionatasi nel corso dei decenni durante i quali la comunità ebraica americana ha progressivamente assunto il controllo di molti dei gangli vitali dell’apparato statunitense, in ogni campo. Col flusso di bilioni di dollari immesso dagli Usa nelle casse dello Stato ebraico dal 1948 si potevano costruire ospedali all’avanguardia in tutto il mondo, scuole, università, acquedotti, infrastrutture, impiantare aziende modello per lo sviluppo dei paesi arretrati, seminare istruzione e conoscenza, costruire pace e equità a beneficio di tutti. Una rivoluzione gentile - e sottolineo gentile-, che avrebbe fatto di tutte le armi orpelli inutili, riducendo le guerre a mortiferi e dispendiosi sprechi di vite e di risorse.

Avrei potuto ma non lo faccio. A questo punto della mattanza umana, che da una settimana travolge anche il Libano - questa notte solo a Beirut Israele ha sbriciolato un intero isolato di palazzine residenziali densamente abitate-, è più che mai necessario rivolgersi alla Storia e ripercorrerla. In Palestina, la maggior parte degli antenati degli attuali cittadini ebrei di Israele, sono arrivati dall’Europa dell’Est con quel che avevano addosso, come tutti i migranti in cerca di fortuna che sbarcano nelle terre degli altri. Non possedevano altro che animi arsi da volontà di ferro, alti propositi, cervelli fini e una robusta visione. Quella sionista della Terra Promessa. Della ricostituzione di Erétz Yisra'él, la Terra d’Israele. Quella landa promessa da Dio ai discendenti di Abramo e Giacobbe. Un patto che all’alba di tutti i tempi il Signore dell’Universo avrebbe stretto con Yisra'él, il popolo da lui eletto sopra ogni altro.

Così come è scritto nel Tanakh e nella Bibbia, Abramo, seguendo l’ordine divino, lasciò la sua terra con il suo popolo e, come migliaia di anni dopo avrebbero fatto i primi cercatori d’oro nel Klondike in quelli che noi oggi chiamiamo Stati Uniti d’America, una distesa infinita di terre e di ricchezze strappate ai nativi indiani con una violenza affatto differente da quella usata dagli ebrei in Palestina, è andato alla ricerca del Luogo a loro destinato.

La Terra dove scorrono latte e miele. Il paradiso perduto dove i conflitti di ogni tipo sono banditi e la prima ragione di ogni vita è trovar realizzazione di sé. Non più schiavi ma artefici del proprio destino e custodi della propria libertà. L’Oriente non li ha mai perseguitati come invece è accaduto in Occidente, anzi li ha sempre accolti. Li accolse il Sultano quando vennero scacciati dalla Spagna. Li accolsero i palestinesi nelle loro case sfamandoli quando approdarono sulle loro coste. Eppure, è l’Est del mondo affacciato sul Mediterraneo che sta pagando da oltre un secolo il prezzo di uno sterminio e di un Olocausto del quale non ha colpa. L’orrore di oggi è figlio di decisioni colonialiste e razziste fatte dai bianchi occidentali che fin dal 1917, attirati da facili e appetitosi guadagni, e nel caso della Gran Bretagna in cambio della vittoria nella Prima Guerra Mondiale, si sono spartiti il corpo agonizzante dell’Impero Ottomano ancora prima che venisse spazzato via dalle mappe geografiche.

Dietro quella spartizione, affatto causale, c’era la lunga mano del ricco e potente Movimento Sionista inglese e americano che, messi gli occhi sulla Palestina, stava abilmente manovrando dietro le quinte affinché, senza grossi intoppi, venisse affidata alla Gran Bretagna la quale, a tempo debito, l’avrebbe poi ceduta ai Sionisti.

Dopo tutti i cammini percorsi e i millenni di storia macinati, oggi Yisra'él pare essersi dimenticato di essere figlio di un’idea e non il frutto della terra, e in quanto tale, sin dalla notte dei tempi, ha rappresentato un ideale al quale tendere più che una realtà geografica sulla quale appiattirsi. Un mondo sapienziale al quale abbeverarsi, più che una purezza del sangue in nome della quale sentirsi legittimato a sterminare chiunque non soddisfi i requisiti.

C’è un detto popolare che si tramanda da secoli: “Quel che inizia male finisce peggio”. Il moderno Stato di Israele è stato proclamato unilateralmente, d’imperio e non di concerto, il 14 maggio 1948, ignorando le richieste degli Stati Uniti e non tenendo conto dei disperati tentativi fatti dalle Nazioni Unite per rimandarne la nascita. Il padre e stratega di questo parto podalico, David Ben-Gurion, in nome di questo progetto è stato disposto a tutto, a mentire, ingannare, rubare, ricattare, uccidere, sabotare, corrompere, permettere che bande terroriste e assassine seminassero il panico fra i villaggi e le genti palestinesi chiudendo occhi su stermini efferati e torrenti di sangue. Quell’uomo aveva un mantra che negli anni successivi alla fondazione di Israele divenne un’ossessione: “Lo Stato di Israele non sarà giudicato in base alla sua ricchezza, né dal suo esercito, né dalla sua tecnologia, ma dal suo carattere morale e dai suoi valori umani”.

Alla luce del disonore, della deriva morale, etica di Israele, delle macchie sulla sua reputazione per i crimini di guerra accumulati in questi ultimi 12 mesi – senza escludere quelli collezionati nei suoi 76 anni di vita-, compiuti sulla popolazione di Gaza, su quella della Cisgiordania, ai quali adesso si aggiungono anche quelli sulla popolazione libanese, è necessario entrare nel merito della Risoluzione 181, votata dalle Nazioni Unite lunedì 29 novembre 1947, grazie alla quale Israele ha visto la luce. Ancora oggi, c’è qualche commentatore che sostiene che “se fosse stata seguita da tutti avrebbe risolto completamente il problema. Perché soddisfaceva tutto quello che oggi si insegue: il famoso sogno dei due popoli, due stati".

Cominciamo col dire che il voto si sarebbe dovuto tenere venerdì 26 novembre. Ma siccome era chiaro fin dalla sera prima che in quella votazione il Movimento Sionista sarebbe andato sotto, che tradotto vuol dire che la Risoluzione non sarebbe passata per mancanza di voti favorevoli, con abili raggiri riuscirono a farla slittare. Una delle principali ragioni per cui la maggior parte dei 55 paesi membri che avrebbero dovuto votare era contrario, nasceva dall'evidenza che, cito "Tracciata con la penna della disperazione, la carta geografica della spartizione risultava un miscuglio di compromessi accettabili e mostruosità inconcepibili: il 57% della Palestina era assegnato agli ebrei, mentre la maggior parte del territorio del futuro Stato ebraico e quasi due terzi della sua popolazione era arabo".

Quanto al "famoso sogno dei due popoli, due stati", non serve dire che non è mai stato quello del milione e quattrocentomila palestinesi che vivevano da millenni in quel territorio. Per tutti loro, fin dal principio, quella spartizione è stata considerata, cito, "Un atto mostruosamente iniquo perpetrato dall'imperialismo occidentale, per porre riparo a un delitto al quale loro, gli arabi - e in special modo i palestinesi - non avevano partecipato”. E non serve nemmeno rammentare che ogni epoca l'Impero Ottomano ha accolto gli ebrei quando tutti i paesi dell'Europa li respingeva. E questa è storia, non personale opinione di chi scrive. Ma torniamo alle dinamiche della votazione di quel fatidico 26 novembre, poi slittato al 29 novembre 1947. Per ripercorrere quelle ore frenetiche non c’è documento migliore di un libro, da tempo fuori commercio: "O Jerusalem!, di Larry Collins e Dominque Lapierre. Nessuno come loro lo ha raccontato e messo nero su bianco, né prima né dopo; questa parte della storia non circola in Internet, è assente, così come è bandita dalla carta stampata. Per questo è tempo di riportarla alla luce.

“A dispetto di tutti gli sforzi fatti e dell'offensiva mondiale di propaganda che avevano essi stessi condotto, i responsabili ebrei si ritrovarono dinanzi a una fosca realtà il mercoledì 26 novembre, quando mancavano 6 ore allo scrutinio. Essendo richiesta una maggioranza di due terzi, ciascun voto rappresentava una posta capitale. (...). Se lo scrutinio doveva svolgersi, come previsto, nel pomeriggio, la creazione di uno stato ebraico sarebbe stata definitivamente compromessa. Dinanzi a questo pericolo, Moshe Sharrett, ministro degli Affari Esteri dell'Agenzia Ebraica, e i suoi compagni, decisero di tentare la fortuna con un'ultima manovra. Dopo duemila anni di attesa, il compimento del sogno del popolo ebreo dipendeva forse da una dilazione di qualche ora. Per strappare gli ultimi voti indispensabili occorreva rimandare lo scrutinio a ogni costo. Una vecchia tattica parlamentare lo avrebbe permesso. Gli strateghi ebrei, riuniti tutti i delegati favorevoli alla loro causa, li pregarono di occupare con i loro interventi la tribuna fino a sera. Quando i rappresentati arabi si accorsero della manovra ostruzionistica era troppo tardi: le loro veementi proteste rimasero inascoltate. Dinanzi a quella maratona oratoria, il presidente dell'assemblea, il brasiliano Oswaldo Aranha, in realtà sincero partigiano della spartizione, dovette proclamare il rinvio dello scrutinio alla prossima seduta”.

Ora, per un provvidenziale concorso del calendario, il movimento sionista di fatto avrebbe guadagnato più di 48 ore, poiché l'indomani cadeva il Thanksgiving Day, la grande festività americana di ringraziamento al Signore. “Durante questa dilazione vitale, quattro nazioni ostili alla spartizione - la Grecia, Haiti, la Liberia e le Filippine - furono sottoposte a una incredibile serie di pressioni e anche di minacce. (...) .

Il momento cruciale alfine giunse. Invitati a pronunciarsi pubblicamente dai loro seggi, i delegati attesero in silenzio che il presidente tirasse a sorte il paese che avrebbe dovuto votare per primo. Quando fu annunciato il nome di Guatemala ci fu una certa agitazione. Poi di nuovo il silenzio. Delegati, osservatori e giornalisti sembravano concedere a quel voto un senso fatidico. Il rappresentante del Guatemala si alzò. prima che aprisse bocca una voce penetrante si levò dalla galleria, lanciando in ebraico un'invocazione antica quanto il tempo e il dolore degli uomini: Ad Hoshiya! - Signore salvaci!”.

Tutto il resto è storia. Con 33 voti favorevoli, 13 contrari e 10 astensioni, il 29 novembre 1947 l'assemblea generale delle Nazioni Unite votava in favore della spartizione della Palestina. Da quel momento ha inizio la tragedia che da 76 anni insanguina la Terra Santa.






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