Esteri
La vera speranza dei palestinesi viene da dentro: la cultura come arma nella lotta per i diritti
Editoriale
Il futuro della Palestina passa per l’istruzione e l’innovazione
Il dott. Khaled Elgindy è un ricercatore senior e direttore del "Program on Palestine and Palestinian-Israeli Affairs" presso il Middle East Institute. Ha scritto un articolo sul New York Times per raccontare la situazione, in quella martoriata area del mondo che è la Palestina.
"La realtà attuale per i palestinesi è a dir poco catastrofica", afferma il dott. Elgindy. Più di 45.000 palestinesi sono stati uccisi a Gaza, secondo le autorità sanitarie locali. Il 90% dei suoi 2,3 milioni di abitanti è stato cacciato e la maggior parte delle infrastrutture civili è stata ridotta in macerie. "L'assalto di Israele rappresenta la più grande deportazione forzata della storia palestinese".
Come altri momenti drammatici nella storia palestinese, la continua catastrofe umanitaria di Gaza lascerà un'impronta indelebile nella coscienza nazionale dei palestinesi. Una guerra che ha ucciso più di 17.000 bambini e scatenato fame e malattie diffuse non poteva fare di meno. "Lasciati a marcire, la sofferenza umana e il trauma collettivo, uniti al crollo dell'ordine sociale e a un crescente senso di disperazione, sono esattamente le condizioni che potrebbero portare a generazioni intere di instabilità e violenza", osserva amaramente Khaled Elgindy sul New York Times .
Nel breve termine, i palestinesi dovranno anche affrontare una nuova sfida: la nuova amministrazione Trump. Nonostante si sia posizionato come Presidente "anti-guerra", Trump avrebbe giurato di porre ancora meno vincoli alle armi per Israele, rispetto all'amministrazione Biden. Le recenti nomine proposte da Trump, tra cui l'ex governatore Mike Huckabee come ambasciatore in Israele e l'ex personalità della Fox News Pete Hegseth come segretario alla difesa, non solo sembrano credere in un "Grande Israele" e opporsi all'autodeterminazione palestinese, ma sembrano anche condividere lo zelo messianico degli elementi più estremi della politica israeliana, incarnando una visione del mondo che cancelli i palestinesi. Nel frattempo, molti nella cerchia del tycoon stanno giurando di reprimere l'attivismo pro-palestinese negli Stati Uniti.
Ma c'è un'opportunità per un futuro diverso. "Tali tentativi di mettere a tacere le voci palestinesi sono di per sé una risposta a uno degli strumenti più potenti dei palestinesi: il riconoscimento globale della giustizia della loro causa", secondo il dott. Elgindy. Oggi esiste un movimento di solidarietà internazionale impegnato nella causa palestinese. È mobilitato come non è mai accaduto prima ed influenza notevolmente l'opinione pubblica.
La persistenza delle proteste nei campus universitari in Nord America e in Europa, nonostante la repressione, evidenzia il profondo cambiamento generazionale nel modo in cui molti, in Occidente, vedono la questione, da una narrazione prevalentemente pro-Israele a una più incentrata sui diritti dei palestinesi.
Le recenti sentenze della Corte internazionale di giustizia e della Corte penale internazionale prospettano, almeno, la possibilità di una responsabilità per la morte e la distruzione diffuse a Gaza, nonché l'accusa di genocidio, che ha preso piede su richiesta del Sudafrica nel gennaio scorso, benché rigettata da USA e Israele. I mandati d'arresto emessi verso Netanyahu e il suo ex Ministro della Difesa, per quanto siano privi di efficacia immediata, costituiscono un segnale politico importante, perché per la prima volta viene colpito il vertice di uno Stato alleato degli Stati Uniti. Si tratta di un dato che viene evidenziato dallo stesso New York Times.
"La più grande speranza dei palestinesi viene da dentro", osserva il dott. Elgindy sul NYT: "con uno dei più alti tassi di alfabetizzazione al mondo (98%) e una cultura nota per la sua enfasi sull'istruzione e l'innovazione, il popolo palestinese vi trova la sua risorsa migliore. Non sorprende che una nuova generazione di leader palestinesi sia emersa a Gaza, in Cisgiordania e nella diaspora che sta sfidando i fallimenti dei loro predecessori, sia internamente che nell'arena internazionale".
Tra questi ci sono persone come Bisan Owda, giornalista, attivista e regista, le cui struggenti storie di sopravvivenza, dolore e speranza a Gaza hanno ispirato milioni di persone in tutto il mondo. Il suo breve video virale "It's Bisan From Gaza and I'm Still Alive" ha vinto un Emmy e altri premi, nonostante una campagna che l'ha accusata di legami con il terrorismo, che lei ha negato.
Un altro esempio è Issa Amro, l'intrepido difensore dei diritti umani e attivista non violento di base a Hebron in Cisgiordania, che ha subito percosse, prigionia e molestie da parte di soldati israeliani, forze di sicurezza palestinesi e coloni ebrei estremisti. Con poco più di una telecamera e la sua voce, Amro ha lavorato instancabilmente per proteggere le case e le proprietà palestinesi dal sequestro da parte di coloni e soldati israeliani violenti e per far luce sulla realtà dell'apartheid di Hebron.
Ahmed Abu Artema è un giornalista indipendente, un attivista e un organizzatore della Great Return March, un movimento di protesta non violento le cui dimostrazioni settimanali hanno portato l'attenzione sulla difficile situazione dei rifugiati palestinesi e sul paralizzante blocco di Gaza. Nada Tarbush, diplomatica di Ginevra laureata a Oxford, ha lanciato appelli appassionati nelle aule delle Nazioni Unite per i diritti, la libertà e la dignità del suo popolo. Rappresentano tutti un contrasto di speranza rispetto alle vuote banalità solitamente ascoltate nelle aule del potere a Ramallah, dove ha sede l'Autorità Nazionale Palestinese.
Il dott. Khaled Elgindy conclude sul NYT: "se il futuro che sorgerà dalle ceneri di Gaza sarà definito da loro e dai loro pari o dal caos e dalla violenza continui dipenderà in larga misura anche da come risponderà il resto del mondo, e se gli Stati Uniti e gli altri governi occidentali riusciranno ad ascoltare e ad accogliere le voci autentiche dei palestinesi".