Esteri

Biden rivale (ma più prevedibile) della Cina. Più partner in Asia. Nodo Taiwan

di Lorenzo Lamperti

I possibili effetti della presidenza dem sui rapporti con il Dragone. E su Taipei, Giappone, Corea e Asean. Meno decoupling, più diritti umani e alleanze

Repressione, sorveglianza di Stato, pratiche abusive in materia tecnologica, vera minaccia economica. Sono alcune delle parole chiave utilizzate da Joe Biden in riferimento alla Cina nel suo manifesto programmatico in materia di politica estera pubblicato su Foreign Affairs. Sede in cui il presidente eletto degli Stati Uniti dice che "c'è bisogno di essere duri con la Cina" e che il modo più efficace per affrontare la sfida è costruire "un fronte unito di alleati e partner dell'America per denunciare i comportamenti abusivi e le violazioni dei diritti umani della Cina, anche se allo stesso tempo si deve cercare di cooperare con Pechino su questioni nelle quali i nostri interessi convergono, come il cambiamento climatico, la non proliferazione degli armamenti nucleari e la sicurezza sanitaria globale".

CON BIDEN LA CINA RESTA UN RIVALE

La Cina ha seguito con grande attenzione le elezioni presidenziali 2020, conscia che comunque i rapporti con Washington hanno preso una certa inerzia che sarà difficile invertire. Chi si aspetta che con Biden la contesa tra Stati Uniti e Cina possa improvvisamente finire a tarallucci e vino si sbaglia. Pechino è e resterà il principale rivale geopolitico di Washington. D'altronde, è stato Barack Obama a cambiare linea sul Dragone, individuando nel contenimento della sua ascesa l'obiettivo principale sul teatro asiatico, e non solo. Fu proprio Obama a calibrare quel Pivot to Asia che altro non era che il tentativo di rafforzare i legami commerciali e diplomatici con i partner dell'Indo Pacifico per rispondere a una Cina tornata ambiziosa con Xi Jinping e la sua Belt and Road

I RISCHI DEGLI ULTIMI DUE MESI DI TRUMP

Trump ha impostato lo scontro con la Cina seguendo i binari commerciali e tecnologici, meno quelli politici e ideologici. Basti pensare alla ritrosia nell'intervenire sui dossier Xinjiang e agli sperticati elogi alla leadership di Xi Jinping, che hanno poi lasciato spazio all'offensiva su quello che ha ribattezzato "virus cinese" per fini elettorali. A Pechino sperano che con Biden ci possa essere la rimozione dei dazi e il ritorno al negoziato commerciale, tanto che nel primo giorno post elezioni i titoli tecnologici cinesi sono andati molto forte in borsa. Ma non sarà così semplice resettare una relazione che Trump ha portato sull'orlo del precipizio. Senza contare che il presidente repubblicano ha ancora oltre due mesi per azioni in grado di portare i rapporti ancora di più verso il punto di non ritorno. Per esempio con qualche azione su Taiwan, sul Mar Cinese Meridionale oppure sullo stesso Xinjiang. Senza contare la velenosa coda delle azioni legali, che potrebbe facilitare ancora di più la narrazione decadente della Cina (e non solo) nei confronti della democrazia americana, mettendo Biden in una posizione "negoziale" più svantaggiosa.

COME LA CINA HA SEGUITO LE ELEZIONI USA 2020

La presidenza di Trump ha rappresentato, agli occhi di Pechino, la seconda prova (dopo la crisi finanziaria del 2008) che il modello americano è in decadenza e per la Cina sia arrivato il momento di non nascondere più le proprie ambizioni, rese plastiche con la Belt and Road prima e con la ricerca dell'autarchia tecnologica (cardine del nuovo piano quinquennale con vista 2035 appena approvato dal quinto plenum del Partito comunista) poi. Non a caso i media cinesi che hanno seguito il voto hanno sottolineato i buchi neri del processo elettorale, e dunque della democrazia, statunitense. Dai sondaggi all'autodichiarazione di vittoria da parte di Trump (con il People's Daily che si è lasciato andare a una presa in giro su Twitter, poi cancellata), dalle proteste per strada alla lentezza del conteggio: tutto è tornato buono, come alcuni mesi fa il Black Lives Matter alle violenze della polizia, per mostrare al proprio pubblico (interno e non) che la democrazia occidentale non funziona più.

La convinzione di Pechino è che, a prescindere da chi ci sia alla Casa Bianca, gli Usa si muoveranno comunque per impedire la propria ascesa dalla quale si sentono minacciati. Senza contare che la prospettiva cinese è di lungo periodo (quantomeno quindicennale), mentre negli Stati Uniti nel 2024 potrebbe anche tornare un presidente dall'approccio trumpiano.

I BENEFICI DIPLOMATICI E COMMERCIALI DELLA "PREVEDIBILITA'" DI BIDEN

Ecco perché non sarà semplice raddrizzare il piano inclinato dei rapporti bilaterali. C'è però un aspetto fondamentale che Biden può "offrire" a Pechino: la maggiore prevedibilità. Non ci si aspettano, col presidente eletto dem, colpi di testa improvvisi come quelli a cui ha abituato Trump, per esempio su Hong Kong e non solo. La contrapposizione potrà essere anche netta, ma meno umorale e personalistica. Cosa che può facilitare la ripresa del dialogo anche sull'aspetto commerciale e tecnologico. E che può portare benefici alle aziende coinvolte, sempre sull'orlo del baratro del ban in questi anni. Ricordandosi sempre che la linea di Biden è che Trump "ha perso" la guerra commerciale con la Cina, non che la guerra commerciale fosse sbagliata.

Allo stesso tempo, l'approccio multilaterale di Biden potrà "chiamare" l'eventuale bluff della Cina, che in questi anni grazie ai vuoti lasciati da Trump si è presentata come campione del multilateralismo. Ma di quale multilateralismo? Secondo Graham Allison, l'era della rivalità sinoamericana "è appena cominciata". E potrebbe investire presto temi per certi versi persino più delicati, come quello degli uiguri o del Tibet. Non è azzardato pensare che Biden possa riprendere la tradizione dell'incontro tra il presidente americano e il Dalai Lama, interrotta proprio da Trump.

CHE COSA PUO' CAMBIARE PER GIAPPONE, COREA E PAESI ASEAN

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Come detto, ci si aspetta che Biden coinvolga maggiormente i partner degli Stati Uniti. In molti pensano che l'amministrazione Biden possa riesumare quel TPP costruito da Obama e stracciato da Trump. Primo passo verso una visione più inclusiva dei rapporti con l'Asia. Giappone e Corea del sud hanno vissuto con ansia il mandato di Trump. La sua imprevedibilità, i suoi incontri non programmati (o comunque non concertati) con Kim Jong-un e la messa in discussione degli accordi difensivi hanno fatto traballare la pazienza di Tokyo e Seul. 

Tanto da portare il Giappone a cercare di costruire le fondamenta di un'alternativa alla Cina puramente asiatica e in grado di poter fare a meno degli Stati Uniti. Con la formula "confronto, ma non scontro" che in tutte le cancellerie asiatiche è la base dei rapporti con il Dragone. Ecco allora il no alla Nato asiatica proposta da Mike Pompeo e la ritrosia a compiere la scelta da che parte stare su cui la Casa Bianca insiste da tempo. I paesi dell'area Asean, per esempio, non si sono lasciati arruolare da Washington nella vicenda del Mar Cinese Meridionale, tenendo come da tradizione un profilo più basso.

Una strategia più calma e più di respiro non potrebbe che far piacere ai diversi paesi della galassia del Sud-Est asiatico, ma non sarà facile persuaderli che l'America è tornata per restare. Paesi come Cambogia e Laos sono ormai molto vicini a Pechino, verso cui hanno mosso passi importanti anche le Filippine. C'è poi il nodo Myanmar, che come abbiamo raccontato in riferimento alle elezioni generali che si sono svolte proprio domenica 8 novembre, è tornato nella lista dei cattivi per Washington.

"Se Biden vincesse e decidesse di giocare correttamente la partita multipolare e della diplomazia integrata, troverebbe ad accoglierlo a braccia aperte l’Ue e l'Asean, insieme a tanti altri", ci ha detto la scorsa settimana Valerio Bordonaro, direttore dell'Associazione Italia-ASEAN. Tra questi, probabilmente, lo stesso Giappone e la stessa Corea, come dimostra tra l'altro la chiusura da record alla borsa di Tokyo di lunedì 9 novembre. 

Nelle scorse settimane, l'India ha firmato un accordo militare con gli Usa durante la visita di Pompeo (ne abbiamo parlato nelle pillole asiatiche), ma in realtà come le altre potenze medie potrebbe vedere con qualche sollievo la vittoria di Biden. Intanto il premier Narendra Modi è stato tra i primi a congratularsi con lui e ha definito un "immenso orgoglio" il fatto che Kamala Harris sia la prossima vicepresidente, visto che la numero due di Biden ha la madre indiana. "Il tuo successo è rivoluzionario, ed è motivo di immenso orgoglio non solo per i tuoi amici, ma anche per tutti gli indo-americani", ha scritto Modi su Twitter.

I TAIWANESI TIFAVANO PER TRUMP, MA AL GOVERNO DI TAIPEI PUO' ANDARE BENE BIDEN

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Un discorso a parte lo merita Taiwan. I cittadini della Repubblica di Cina, soprattutto i sostenitori del governo del Democratic Progressive Party, erano in maggioranza schierati con Trump. A Taipei non è stata dimenticata la famosa telefonata che il tycoon fece alla presidente Tsai Ing-wen poco dopo la sua vittoria nel 2016. E proprio su questo punto formale si iniziano a fare i paragoni con Biden, che difficilmente rialzerà la cornetta per chiamare Tsai. "Si tratterà del primo paragone che verrà fatto tra i due presidenti americani", scrive su Twitter lo studioso Lev Nachman. "La telefonata Trump-Tsai fu un'anomalia nella versione migliore e un potenziale disastro nella sua versione peggiore, ma i taiwanesi l'hanno amata per il breve momento di normalizzazione che ha portato. E nel contesto del 2020 una simile telefonata avrebbe implicazioni ancora più pesanti", dice ancora Nachman.

A livello politico, la presidente Tsai e altri membri del governo hanno dichiarato più volte che il supporto a Taiwan è bipartisan nel Congresso degli Stati Uniti ma i taiwanesi elencano tutte le azioni senza precedenti fatte dall'amministrazione Trump negli ultimi anni, dall'apertura di un'ambasciata de facto alle vendite di armi (non una novità, in realtà) fino alle recenti visite del segretario alla Salute Alex Azar e del sottosegretario agli Affari economici Keith Krach. Ma la domanda è: queste azioni fanno bene o male a Taiwan?

Sull'isola c'è un vecchio adagio che recita: "Dagli Stati Uniti abbiamo bisogno di una relazione stabile e duratura, non di un amore appassionato e imprevedibile". Ecco, se da una parte è innegabile che le azioni di Trump abbiano portato Taiwan al centro del dibattito, dall'altro hanno aumentato considerevolmente i rischi. Tanto da far credere ad alcuni analisti che Formosa possa essere la valvola di sfogo di un confronto indiretto o a bassa intensità tra le due principali potenze. Alle spese, appunto, di Taipei, che non vorrebbe o non dovrebbe farsi identificare troppo come la "punta del pennarello" delle strategie anti cinesi di Trump.

Due esempi su tutti: i casi Oms e Tsmc. Trump aveva promesso di aiutare Taipei a rientrare alle riunioni dell'Oms, salvo poi uscirne lui stesso. Ha imposto il ban all'export di chip e semiconduttori verso Huawei, cliente fondamentale per Tsmc, la principale fonderia mondiale che per Taipei rappresenta non solo un pilastro a livello economico, ma anche diplomatico. Seppure il dialogo intrastretto sia azzerato a livello politico sin dall'elezione di Tsai nel 2016, il ruolo di Tsmc aiutava Taiwan a essere fondamentale per Pechino, che nel colosso di Hsinchu aveva un tassello imprescindibile della sua catena di approvvigionamento tecnologica. 

In campagna elettorale Biden ha citato Taiwan come "esempio di democrazia", "centro nevralgico della tecnologia mondiale" e "luminoso esempio di come una società aperta possa contenere il Covid-19". E ha promesso di mantenere forti i legami tra Washington e Taipei. Sull'isola c'è però qualcuno che ricorda il rapporto di Biden con Xi durante la sua vicepresidenza, gli affari del figlio in Cina. Ma in realtà, anche all'interno del governo, potrebbero essere in molti quelli ad avere tirato un sospiro di sollievo. Soprattutto quelli che temono di poter diventare una pedina da giocarsi sulla scacchiera della sfida tra potenze globali.