Esteri
Pompeo elimina le restrizioni "auto imposte". Che cosa cambia tra Usa e Taiwan
Poi il congresso in Corea del nord e le elezioni in Kirghizistan e Kazakistan. Pillole asiatiche
Il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha rimosso le restrizioni auto imposte nei rapporti degli Stati Uniti con Taiwan. "Per diversi decenni il Dipartimento di Stato ha creato complesse restrizioni interne per regolare i nostri diplomatici, i membri dei servizi e le interazioni di altri funzionari con le loro controparti taiwanesi. Il governo degli Stati Uniti ha preso queste azioni unilateralmente, nel tentativo di placare il regime comunista di Pechino. Non più", ha dichiarato Pompeo in un comunicato nella giornata di sabato 9 gennaio emesso dal dipartimento di Stato. "Annuncio che sto togliendo tutte queste restrizioni auto-imposte. Le agenzie esecutive dovrebbero considerare nulle tutte le linee guida di contatto riguardanti le relazioni con Taiwan. Inoltre, tutte le sezioni del manuale degli Affari Esteri o del manuale degli Affari Esteri che trasmettono le autorità o che altrimenti pretendono di regolare l'impegno del ramo esecutivo con Taiwan attraverso qualsiasi entità diversa dall'American Institute in Taiwan (AIT) sono anch'esse annullate".
E ancora: "Le relazioni del ramo esecutivo con Taiwan devono essere gestite dall'AIT senza scopo di lucro, come stabilito nel Taiwan Relations Act. Il governo degli Stati Uniti intrattiene relazioni con partner non ufficiali in tutto il mondo, e Taiwan non fa eccezione. Le nostre due democrazie condividono valori comuni di libertà individuale, lo stato di diritto e il rispetto della dignità umana. La dichiarazione di oggi riconosce che le relazioni tra gli Stati Uniti e Taiwan non hanno bisogno, e non dovrebbero essere ostacolate da restrizioni autoimposte della nostra burocrazia permanente", conclude il comunicato.
Le reazioni di Taiwan
Le reazioni arrivate dal governo taiwanese sono positive. "Taiwan è un paese e un partner affidabile, meritiamo di essere trattati come tali. Ci felicitiamo per la decisione del segretario di Stato Pompeo di rimuovere le restrizioni sulle interazioni tra Stati Uniti e Taiwan", ha scritto su Twitter il vice presidente William Lai. "Normalizzare le relazioni con gli Stati Uniti e altri paesi è il desiderio e il più grande interesse dei cittadini taiwanesi". Ringraziamenti sono arrivati anche dal ministero degli Esteri e dal portavoce dell'ufficio presidenziale Xavier Chang. Lo stesso partito di opposizione, il Guomindang, ha definito l'annuncio di Pompeo una buona notizia, sottolineando comunque che sarà fondamentale capire se l'impegno sarà mantenuto da Joe Biden oppure no.
Le reazioni della Cina
Il governo cinese non ha finora commentato, mentre, come prevedibile, i media statali hanno criticato la decisione di Pompeo, che secondo Xinhua cerca "di infliggere maliziosamente una cicatrice di lunga durata ai rapporti Cina-Stati Uniti". La Cgtn lo ha definito "un atto di sabotaggio codardo" dell'amministrazione Biden.
La portata della decisione
L'annuncio di Pompeo non implica l'avvio di relazioni diplomatiche ufficiali tra Washington e Taipei o la fine della cosiddetta "one China policy", che regola i rapporti trilaterali secondo una deliberata ambiguità sancita dal Taiwan Relations Act del 1979. Taiwan continua a essere definita dal segretario di Stato "partner non ufficiale", anche perché diversamente non poteva essere. Eliminare le "restrizioni auto-imposte" dai rapporti bilaterali rientra nelle competenze del segretario di Stato, per riconoscere ufficialmente Taiwan ci vorrebbe un'azione presidenziale. Julian Ku, Maurice A. Dean School of Law della Hofstra University, sottolinea su Twitter come "seppur importanti, queste regole (quelle rimosse dall'annuncio di Pompeo, ndr) non erano assolutamente necessarie al rispetto della one China policy o al Taiwan Relations Act. Quindi Blinken (il successore di Pompeo, ndr) non ha bisogno di cancellarle per sostenere che l'amministrazione Biden aderisce alla one China policy". Allo stesso tempo, si tratta comunque di una mossa importante (e da lungo agognata da Taipei), perché rende meno vincolato (e più ambizioso) il dialogo bilaterale. Complicato capire adesso le implicazioni reali, di certo il canale diventa più fluido. Dipenderà comunque molto dall'interpretazione che se ne vorrà dare.
Il contesto della decisione
D'altronde, va sottolineato come il dialogo sia più ambizioso già dall'inizio dell'amministrazione Trump. A partire dalla famosa telefonata alla presidente Tsai Ing-wen, passando per l'istituzione di un'ambasciata de facto e per la vendita di armi (in realtà non una novità, quest'ultima), e finendo con le visite di alti funzionari statunitensi. Negli scorsi mesi sono stati ospitati a Taipei Alex Azar, segretario alla salute, e Keith Krach, sottosegretario di Stato. Mercoledì 13 gennaio, invece, sarà la volta di Kelly Craft, ambasciatrice degli Usa alle Nazioni Unite. Prima figura del suo grado a recarsi a Taiwan. Allo stesso tempo, però, due decisioni americane giunte nel 2020 non hanno favorito Taiwan. La prima è stata quella di ritirarsi dall'Organizzazione mondiale della sanità, dove Taipei sperava di rientrare proprio con l'aiuto di Washington. La seconda è stata invece quella di esporre l'industria dei semiconduttori (di cui Taiwan è leader mondiale) a contraccolpi politici ed economici, applicando il ban all'esportazione di TSMC verso i clienti cinesi con contestuale annuncio di apertura di un impianto in Arizona. Negli scorsi mesi l'eliminazione delle restrizioni all'import di carne di maiale americana da parte del governo taiwanese sembrava anticipare un possibile accordi di libero scambio, che però non si è per ora concretizzato. Allo stesso tempo, il governo americano ha mostrato sostegno a un progetto di investimenti nell'Asia Pacifico a guida taiwanese.
I tempi della decisione
La mossa di Pompeo arriva in un momento quantomeno agitato. Già subito dopo l'esito delle elezioni presidenziali dello scorso 3 novembre, in molti si aspettavano delle mosse dell'amministrazione Trump utili a indirizzare le politiche nei confronti della Cina, in qualche modo "incastrando" Biden (certo, nessuno si aspettava quanto accaduto a Capitol Hill nei giorni scorsi). Anche in questo caso si tratta di un dispetto al team democratico? Il dubbio c'è, anche se il sostegno a Taipei è stato un argomento bipartisan negli ultimi anni. Nonostante l'annuncio di Pompeo possa sembrare improvviso, arriva dopo il Taiwan Assurance Act, che ne costituiva la precondizione, approvato con sostegno trasversale dal Congresso americano. Pompeo non è comunque nuovo ad azioni in extremis, come avvenuto già sul Xinjiang quando poco prima del voto presidenziale aveva rimosso l’ETIM dalla lista di organizzazioni terroristiche internazionali.
I dubbi sulla decisione
Tenendo conto di tutti questi elementi, vale la pena provare a fare qualche riflessione, tenendo presente che qualsiasi interpretazione dell'annuncio di Pompeo dipende in primis dal grado di condivisione dello stesso sia sul fronte interno (e dunque se ci sia stato un accordo a procedere di qualche tipo a livello politico o di "apparato") sia (e soprattutto) su quello esterno (cioè se il governo taiwanese ha partecipato alla decisione o ne è stato informato preventivamente).
Chiaro che eliminare delle restrizioni auto-imposte può facilitare il dialogo bilaterale e creare un esempio per altri paesi nel loro rapporto con Taiwan. Ma a far sorgere qualche dubbio sono soprattutto i tempi. In questi anni, ma soprattutto in questi mesi e in questi giorni, ha molto contribuito alla retorica cinese del "what about". L'approccio utilitaristico nei confronti delle alleanze o partnership geopolitiche, così come la ritirata dalle organizzazioni internazionali e l'arbitrarietà di una linea anti cinese priva di qualsivoglia afflato retorico (ma semmai talvolta densa di sentimento sinofobico) rischia di caratterizzare e "colorare" troppo una decisione che dovrebbe poggiarsi su un binario bipartisan, proprio per evitare strumentalizzazioni.
Il secondo dubbio è sull'impalcatura che sorregge questa decisione. E non è una questione banale. Chiedersi se si tratti di una decisione condivisa o di un colpo di testa (l'ennesimo) di un'amministrazione arrivata (male) al capolinea non è solo un esercizio formale.
Ipotesi uno (per usare un eufemismo, improbabile): decisione condivisa, i Dem erano d'accordo e preparati con una visione di lungo termine, e Pompeo ha praticamente fatto il lavoro sporco per loro.
Ipotesi due (possibile): decisione non condivisa, i Dem non sapevano ma condividono e hanno comunque una visione di lungo termine, e Pompeo ha inconsapevolmente fatto un favore a Biden.
Ipotesi tre (possibile anch'essa): decisione non condivisa, i Dem non sapevano e non condividono o non hanno pronta una visione di lungo termine, e quello di Pompeo rischia di essere solo un'azione strumentale tesa a mettere in difficoltà i rivali politici interni, noncurante delle conseguenze per Taiwan.
Sì, perché la differenza la fa se questo annuncio arriva all'interno di una visione più ampia dei rapporti con Taiwan, che spesso è stata utilizzata da Washington come punto di pressione o "punta del pennarello" della strategia nei confronti della Cina.
Drew Thompson, ex responsabile per Cina, Taiwan e Mongolia del dipartimento di Difesa, sostiene che la rimozione delle auto imposizioni "sia un approccio giusto, ma questo non è il momento giusto. Un annuncio generico come quello di Pompeo, che abroga tutte le linee guida in vigore da anni senza articolare quale struttura la sostituirà, amplifica semplicemente il caos percepito a Washington. Non so se la decisione abbia tenuto conto dei potenziali impatti negativi su Taiwan, se Tsai Ing-wen sia stata consultata e se Taiwan sia preparata alle pressioni e alle ritorsioni che Pechino potrebbe esercitare. Washington dovrà sostenere Taipei per mantenere credibilità". Scrive ancora Thompson su Twitter: "Sarebbe stato più significativo aver riformato in modo completo la politica di engagement degli Stati Uniti per rifletterne i valori e gli interessi, quindi implementare quelle pratiche per anni, stabilendo nuove norme positive a vantaggio sia degli Stati Uniti che di Taiwan, mantenendo la stabilità dello stretto. È una cosa giusta fatta male, quattro anni in ritardo. Una mossa che può essere invertita con poco sforzo in poche settimane, incentivando Pechino a esercitare pressioni e coercizione sulla nuova amministrazione, invitandola di fatto a interferire nel processo decisionale degli Stati Uniti".
CONGRESSO IN COREA DEL NORD
(fonte Lapresse)
Nel frattempo, a Pyongyang si è concluso il sesto giorno dell'ottavo congresso del Partito dei lavoratori della Corea del nord. Un evento raro, se si considera che si tratta del primo in cinque anni e del secondo in 40 anni (i due precedenti erano datati 1980 e 2016). Kim ha aperto i lavori parlando di fronte a una folla di circa settemila persone (rigorosamente senza mascherina, visto che ufficialmente la pandemia da coronavirus non è arrivata in Corea del nord). Ha da una parte lodato gli "splendidi successi" del partito, ma dall'altra ha dichiarato "falliti" gli obiettivi per il miglioramento dell'economia contenuti nel piano quinquennale. Kim ha poi promesso che il partito troverà un nuovo modo per compiere ''un balzo in avanti radicale''. Dopo un ritratto in abiti militari (un inedito), Kim ha presentato i punti chiave del prossimo piano quinquennale: autosufficienza, più poteri al partito e regolarità (quinquennale) del congresso del partito, sviluppo militare e nuove armi nucleari tra cui un sottomarino atomico. In materia di politica estera, Kim ha definito le relazioni intracoreane tornate indietro a prima della dichiarazione congiunta di Panmunjon (2018). Mentre è arrivato il primo messaggio a Biden, con gli Usa definiti il "più grande e principale nemico". "La politica ostile americana non cambia a seconda di chi è alla Casa Bianca", ha dichiarato Biden. Lunedì 11 gennaio si attendono il report finale e la cerimonia di chiusura dell'evento.
ELEZIONI IN ASIA CENTRALE
Sempre domenica 10 gennaio in agenda elezioni in due paesi dell'Asia centrale. Con situazioni e condizioni però molto diverse. In Kazakistan si è votato per le elezioni parlamentari, destinate a confermare la vittoria del partito di governo. Si tratta della prima tornata elettorale sotto la guida del presidente Kassym-Jomart Tokayev, succeduto a sorpresa nel 2019 a Nursultan Nazarbayev, leader del paese da 30 anni a cui ora è stata anche intitolata la capitale. Tokayev aveva promesso l'avvio di graduali riforme politiche e di apertura del sistema autoritario. Cosa che secondo molti non è avvenuta. Nazarbayev continua a controllare il Nur Otan, partito di maggioranza alla Camera bassa e grande favorito delle elezioni. Tra i candidati c'è anche la figlia maggiore, la 57enne Dariga Nazarbayeva, che era stata licenziata (senza spiegazioni ufficiali) da Tokayev dal suo ruolo di speaker del Senato. Partecipano altri quattro partiti, comunque fedeli al governo: Adal (Onesto), Auyl (Villaggio), Ak Zhol (Sentiero Luminoso) e il Partito popolare (ex Partito popolare comunista). L'unico vero partito di opposizione, il Partito Socialdemocratico Nazionale (OSDP), ha boicottato le urne.
In Kirghizistan si arriva invece alle urne per le presidenziali e la riforma della costituzione dopo mesi a dir poco tempestosi. Il voto legislativo dello scorso ottobre, con il successo secondo le accuse "truccato" dei partiti sodali del presidente Sooronbai Jeenbekov, erano esplose le proteste in un paese frammentato e sempre sull'orlo dello scontro etnico. Lo stesso Jeenbekov è stato costretto a dimettersi, mentre Sadyr Japarov è stato liberato dal carcere dai manifestanti ed è diventato il leader ad interim, rinunciando poi alla posizione per potersi candidare alla presidenza. Contro di lui altri 16 candidati, mentre l'ex presidente Atambayev (anch'egli in un primo momento liberato durante le proteste) è tornato in carcere. Secondo le prime stime, Japarov avrebbe agevolmente vinto le elezioni.