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EUTANASIA

Il parere dell’Avvocato Rossana Ferraro, Magistrato Gop, Responsabile legale di diverse ODV

In Italia l’eutanasia non è disciplinata, da nessuna normativa, ma è astrattamente considerato un evento possibile.

Il diritto di poter morire “dolcemente”, ancora oggi, non è ascrivibile ad un diritto soggettivo, ma rimesso ad una valutazione giudiziaria, che si muove nella totale incertezza normativa: la decisione compete ad un Tribunale cui grava l’onere di effettuare difficili valutazioni tecniche, in assenza di una “legge” che determini i confini della liceità di ogni pratica di suicidio assistito.

“Tale pratica è stata “potenzialmente” ritenuta possibile solo di recente, quando si è aperta una crepa nella rigidità normativa dell’articolo 580 del codice penale e di guisa dell’articolo 50 dello stesso, ad opera della sentenza n. 242 resa dalla Corte Costituzionale il 22 novembre 2019”-sottolinea l’Avvocato Ferraro. 

“Con tale sentenza è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 580 c.p., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della Legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione, “agevoli l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputi intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”.

La sentenza richiama la legge 219/2017 che riconosce ad ogni persona capace di agire il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, ancorché necessario alla propria sopravvivenza, comprendendo espressamente nella nozione anche i trattamenti di idratazione e nutrizione, secondo una relazione di cura e fiducia tra paziente e medico. Tuttavia, la legislazione in vigore non consente al medico di mettere a disposizione del paziente che versi nelle condizioni di cui sopra trattamenti diretti a determinarne la morte, per porre fine alle sofferenze. 

La Corte Costituzionale ha ritenuto che "il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un'unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse

Costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive (art. 3 Cost.: parametro, quest'ultimo, peraltro non evocato dal giudice a quo in rapporto alla questione principale, ma comunque rilevante quale fondamento della dignità umana)".

La Corte Costituzionale, preso atto dell'inerzia del legislatore nel fornire una disciplina di dettaglio la materia, ha ritenuto che "la verifica delle condizioni che rendono legittimo l'aiuto al suicidio deve restare peraltro affidata a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale. A queste ultime spetterà altresì verificare le relative modalità di esecuzione le quali dovranno evidentemente essere tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze. La Corte ha indicato che nel bilanciamento dei valori contrapposti sarebbe opportuno anche il “parere” di un organo collegiale terzo: che è stato per ora affidato ai comitati etici territorialmente competenti, in assenza di una LEGGE che definisca la normativa.

Insomma è ancora tutto rimesso ad un procedimento non oggetto di legiferazione, che poggia su dati approssimativi, in assenza di regole, dove regna solo la “coscienza” soggettiva di chi è coinvolto ad esprimersi sulla possibilità di “decretare il diritto di morire” di un’altra persona.

Lo ius vitae et necis di una persona è rimesso ad un difficile giudizio di un magistrato, cui grava anche l’onere di valutare aspetti tecnici non rubricati dalla “legge”, oltrechè ad una serie di soggetti, il cui ruolo e dovere non è predeterminato da una “legge”.

Lo scenario è agghiacciante, sia per la persona che aspira a tale metodica per porre fine alla propria dolorosa esistenza, sia sul Magistrato chiamato ad esprimersi. 

Inoltre, non sono definiti gli ambiti soggettivi di coloro che possano richiedere tale pratica: non si sa, insomma, se risulti lecita l’istanza di un familiare e quali sono i possibili requisiti legittimanti.

E’ del tutto evanescente insomma il confine fra liceità ed illiceità che si muove lungo il bene più prezioso per l’essere umano, che è la vita.

Il delicato tema sta affiorato con la sua prepotenza negli ultimi giorni, dopo le recenti sentenze che hanno autorizzato dei recenti casi di “suicidio assistito”. Le preoccupazioni si muovono fra dubbi ed incertezze normative, tenuto conto che i Tribunali sono chiamati ad esprimersi di volta in volta, senza che la legge chiarisca ancora se e quando la “pratica” sia consentita. 

Il problema coinvolge tutti: dal Professionista Medico che deve intervenire, all’Avvocato che è chiamato ad avviare la richiesta e soprattutto al delicato ruolo del Magistrato cui è rimesso il provvedimento di avvio o di diniego della pratica di “morte”.

E’ necessaria subito una legge che determini i confini legittimi del suicidio assistito come diritto della persona, con chiarezza e trasparenza normativa, per consentire a tutti di morire con serenità: in ossequio al principio di eguaglianza come diritto inviolabile dell’uomo, seguendo un iter procedimentale univoco senza che ricada in modo ingiusto sulle coscienze di chi ha il gravoso onere di dover decidere della vita altrui, secondo una norma che disegni i profili di responsabilità e ristabilisca la legalità, dotata di certezza e cogenza”.