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Douglas Stuart, dall’infanzia violenta al Booker Prize: “Ecco la mia Glasgow”
Douglas Stuart, caso letterario del 2020, esordiente vincitore del Booker Prize, è cresciuto nella Glasgow tatcheriana, e la racconta in Storia di Shuggie Bain
Douglas Stuart, Storia di Shuggie Bain: intervista
E’ stato il caso letterario del 2020, vincitore, con il libro d’esordio, del prestigioso Booker Prize, il riconoscimento attribuito ogni anno alla miglior opera di narrativa in lingua inglese: parliamo di Storia di Shuggie Bain di Douglas Stuart da poco uscito nelle librerie per i tipi di Mondadori (pp. 529, euro 21) nella bella e non semplice traduzione - per l’intercalare di espressioni glaswegian, il dialetto di Glasgow - di Lorenzo Cremonesi.
In effetti, la storia di Douglas Stuart è a dir poco singolare. Nato e cresciuto nella Glasgow thatcheriana degli anni ’80 e inizio ‘90, tra disoccupazione, scioperi, violenza, con una madre alcolista e un padre tassista che la tradisce e poi la abbandona in un sobborgo di ex-minatori, Stuart, come il suo alter ego nel romanzo Shuggie, vive l’infanzia precaria e infelice di molti personaggi di Dickens, tra povertà e rifiuto della sua non celata omosessualità. Poi, morta la madre, taglia i ponti con la città natale e vola a New York dove si afferma nel campo della moda.
Sembra una di quelle storie che tanto piacciano agli americani, il self-made man che trionfa sul suo destino ingiusto, se non che Douglas Stuart è scozzese, il suo cuore è rimasto tra i tenements di Glasgow.
Dentro di lui rimane il tarlo di una vicenda personale che deve essere raccontata, diventare di tutti; e quale modo migliore per farlo se non in un romanzo segnatamente autobiografico. Facile pensarlo, più complicato riuscirci per un ragazzino - ora uomo – cresciuto in un casa, come ammette lui stesso, senza libri.
Ma con caparbietà inizia a vergare pagine su pagine, alla fine saranno un migliaio e nel frattempo sono trascorsi una decina d’anni. Propone il volume a un importante editore di New York, Picador, lo stesso che ha pubblicato una scrittrice bestseller come Hanya Yanagihara, che non si lascia spaventare dalla lunghezza del manoscritto o dal profilo dello sconosciuto esordiente, e decide di pubblicarlo. Certo, gli affiancherebbe un editor, se Stuart è d’accordo, anche perché mille pagine sono troppe, però si può fare. A Stuart non sembra vero, il sogno si realizza. Ma non finisce qui.
Lo schema formalista di Propp sembra saltare: non c’è nessun antagonista o lupo cattivo a complicare le cose, tutto fila liscio. Tanto che, inaspettato e inimmaginabile, insieme alla pubblicazione arriva quel riconoscimento del Booker Prize che lo pone dal nulla nel gotha degli scrittori viventi.
Questa è la storia di Douglas Stuart. Quella di Shuggie, il personaggio che dà il titolo al libro, è molto simile, ma si ferma prima, al 1992, nel momento in cui avviene il passaggio di testimone tra la mamma Agnes e il figlio Shuggie. In fondo, il libro vuole raccontare soprattutto questo, il rapporto tra una madre bellissima e fragile, segnata in modo irreparabile dalla vita, e un bambino – Shuggie – che ai suoi tanti problemi deve aggiungere il difficile ménage con chi gli ha dato la vita. E’ la storia di un’eredità, potremmo dire in termini lacaniani: come si possa uscire da un inferno famigliare operando quello che Lacan, appunto, chiamava il petit décalage, quello scarto che ci permette di riappropriarci di un destino.
Il libro è però molto di più di un’intima e drammatica storia familiare. C’è la tetraggine di una città sfiancata dal rigido liberismo thatcheriano, con le fabbriche, i cantieri navali, le miniere che una a una chiudono i battenti, lasciando per strada stuoli di disoccupati abbruttiti dall’alcol e dalla droga. Quello di Stuart è un libro realista in senso tardo-ottocentesco, di aperta denuncia sociale, un po’ Thomas Hardy, uno dei suoi principali riferimenti letterari, un po’ il Jonathan Coe di La famiglia Winshaw o il più recente Middle England, un’autodiagnosi senza sconti sullo spaesamento post-Brexit. Ma, come scriveva Virginia Woolf a proposito proprio di Hardy, anche Stuart è allo stesso tempo «un poeta e un realista». La storia ti afferra alla gola per la qualità della scrittura, per la fine psicologia dei personaggi che non perdono mai, come la madre di Shuggie/Stuart, la loro dignità, per i tratti vividi e toccanti che rendono “magnifica” persino “la scintillante città che si estendeva davanti a loro”, Glasgow, appunto.
“C’è una lunga tradizione nella nostra narrativa industriale e post-industriale che ha al centro l’universo patriarcale della classe operaia”, spiega Stuart ad Affaritaliani che lo ha raggiunto in videoconferenza nella sua casa di New York. “Ma la struttura portante della città, anche negli anni del thatcherismo, era costituita dalle donne, anche se apparentemente non avevano alcun controllo. Il mio libro vuol essere una riscrittura della storia dal loro punto di vista, perché sono loro, insieme ai bambini, a pagare il prezzo quando gli uomini sono vittime di queste situazioni”.
Come mai l’esigenza di scrivere in forma di romanzo, e dopo molti anni, la sua storia?
Ci sono nella storia personaggi reali che volevo fossero spinti fuori dalla mia vita e consegnati al lettore, anche per un senso di giustizia. Sono figure nascoste, di cui si scrive raramente, perché si pensa non abbiano la dignità di essere raccontati. Ci tenevo molto che il li libro rispecchiasse il mio intento di appartenere a loro oltre che ai lettori. Abbiamo alle spalle centinaia di anni di letteratura con uno sguardo sull’upper class, con i suoi candelabri, i pranzi e le cene. Io volevo scrivere qualcosa che desse lo stesso tipo di riconoscimento alla working class. Amo molto il cinema italiano, film di Carlo Ponti, Sophia Loren, dove viene appunto rappresentato un tipo di donna estremamente povera, ma di grande dignità.
Douglas Stuart
Il suo libro è più un atto di amore o di denuncia su Glasgow?
Amo Glasgow, in modo sincero e profondo, e la scrittura è un modo di ricondurmi a casa, anche se forse Glasgow non voleva bene a me da giovane: non c'era spazio per un giovane omosessuale e per questo sono venuto a New York. Ma il mio libro è nato come una lettera per quella città, non sapevo allora, infatti, se il romanzo sarebbe stato pubblicato. Una lettera è qualcosa che ci si scrive tra due persone quando si è lontani. Certo mostro la complessità e bruttezza di quella situazione, ma in questo modo le riconosco anche la sua dignità. La mia famiglia, mia sorella e i figli vivono ancora lì e Glasgow sarà sempre parte della mia vita.
La Glasgow del romanzo assomiglia un po’ alla Middle England post Brexit raccontata da Coe...
E’ vero, concentrandomi sul personaggio di Shuggie Bain e su quello specifico momento storico non avevo consapevolezza di quanta parte dello spirito del tempo attuale sarei andato a richiamare ed è deprimente rendersi conto che c'è una enorme relazione con la situazione di oggi. Ci sono ancora bambini che non hanno ancora abbastanza da mangiare, a cui vengono abbassati i voti per la classe sociale provenienza. Allora c’era il 60% disoccupati, l'aspettativa vita era scesa di 14 anni, un dato enorme per il quinto paese più industrializzato al mondo. Eppure oggi, negli Stati Uniti, ci sono 40 milioni di persone, il 15% della popolazione, che non hanno abbastanza da mangiare, lo ha dichiarato recentemente il neo-presidente Joe Biden. E non se ne parla perché la classe media non ha interesse a farlo e la stessa working class ha come timore a divulgare le sue condizioni.
Si può dire che la scrittura per lei ha avuto un ruolo terapeutico, quasi catartico?
Il mio trauma mi accompagnerà sempre, ma in effetti la mia arte è stata e sarà utile per gestirlo. I bambini sono esposti a situazioni che non li dovrebbero sfiorare. Tuttavia, il mio libro vuole raccontare una speranza, più che un senso di perdita: quella di una madre che nonostante tutto vuole trasmettere un futuro ai suoi figli pur essendone incapace.