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10) Factory Records: fare la storia, ma senza fare soldi

Se Manchester è una città iconica per gli amanti della musica, in gran parte è merito della Factory Records, casa discografica fondata da Tony Wilson nel 1979. Nel corso dei suoi 13 anni di storia, la Factory ha profondamente segnato la propria epoca con oltre 70 artisti, tra i quali spiccavano i Joy Division. L'etichetta è sopravvissuta anche al drammatico suicidio del leader della band, Ian Curis, nel 1980: anzi, la pubblicazione postuma dell'album “Closer” si è rivelata un grande successo, con il singolo “Love will tear us apart” in cima alle classifiche. Non solo, i membri superstiti hanno dato vita ad un'altra band, i New Order, regalando alla Factory ulteriori successi: “Blue Monday”, del 1983, è stato quello più clamoroso. Nel contempo, la stessa proprietà aveva aperto sempre a Manchester la Hacienda, nota anche come Fac 51, che per alcuni anni fu il club notturno più famoso del mondo. Purtroppo, divenne famoso anche per motivi negativi, come le perquisizioni per il diffuso uso di droghe e alcune rapine a mano armata. Il declino della casa discografica ha avuto il suo picco nel 1992, quando un'altra band molto famosa, gli Happy Mondays, stava registrando l'album “Yes Please”. Tra la location scelta (le Isole Barbados) e la dipendenza del cantante Shaun Ryder dal crack, dal budget iniziale di 150.000 sterline si arrivò a un conto finale di oltre il doppio. Nel contempo, i New Order spendevano ancora di più per il loro disco “Republic” e il disavanzo tra uscite e entrate mise la Factory in ginocchio: già nel 1992 ne venne decretato il fallimento. Nonostante i vari tentativi di rilanciare etichetta e locale con altri nomi, Tony Wilson è letteralmente finito in miseria: nel 2007, a 57 anni, è morto per arresto cardiaco, in seguito a un cancro al rene che non riuscì a curare per mancanza di mezzi economici. Come lui stesso disse prima della sua tragica fine: “Sono stato l'unico nel business della musica a non fare i soldi, ma almeno sono riuscito a fare la storia”.

 

 

9) Crowdmix: due anni vissuti pericolosamente

crowdmix
 

Tra le tante startup che non realizzano i sogni dei loro ideatori, un flop davvero clamoroso ha caratterizzato quella fondata da Ian Roberts e Gareth Ingham nel 2015. Crowdmix doveva diventare un unicorno da un miliardo di dollari, aveva raccolto 14 milioni di sterline di finanziamenti, annoverava oltre 160 dipendenti e sedi sui due lati dell'Oceano... ma non ha mai nemmeno visto la luce. Raccontiamo allora quello che sarebbe dovuto essere: una app a metà strada tra streaming e social network, sulla quale ascoltare e commentare le classifiche create in tempo reale dagli utenti. L'idea era piaciuta molto anche agli investitori, ma forse gli entusiasmi erano stati eccessivi. Lo si era capito anche dalla sontuosa festa ad Amsterdam, con i Faithless ed altri artisti ad esibirsi sul palco, alla modica spesa di 200.000 sterline. La grandeur è continuata con gli interior designer arruolati per arredare le sedi di Londra e Venice Beach, l'ingaggio di un'agenzia di comunicazione da 60.000 sterline di parcella mensile e investimenti faraonici sia sul fronte manageriale che su quello tecnico. A questo proposito, ogni idea di miglioramento dell'app comportava lunghe rielaborazioni e rinvii del suo rilascio. Arrivati a un regime di spese consolidate tra uno e due milioni di sterline ogni mese, a fronte di ricavi ancora pari allo zero, la realtà ha bussato alla porta: è subito parso chiaro che i primi licenziamenti e ritardi nel pagamento degli stipendi non sarebbero bastati a scongiurare l'inevitabile, ovvero un clamoroso fallimento.

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