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Politica
Borsino Nazareno, chi sale e chi scende. Pd, tra new entry e nomi bruciati
Roberta Pinotti

Le grandi manovre in casa Pd iniziano oggi. Anche perché il tempo stringe e mancano ormai pochi giorni all’appuntamento con l’assembla nazionale del 13 e 14 marzo. Chi sarà il prescelto o la prescelta per guidare il partito fino al congresso, che quasi sicuramente si terrà l’anno prossimo e non più nel 2023? Il segretario dimissionario Nicola Zingaretti è davvero fuori dalla partita o c’è ancora qualche possibilità che rientri in gioco? E’ su questi scenari che si ragiona tra i democratici che valutano le opzioni in campo. Perché, al momento, come raccontano ad Affari, “tutto è ancora possibile”. Certo, le parole pronunciate ieri sera da Zingaretti sembrano non lasciare molte speranze tra chi auspica ancora che sia lui il numero uno del Nazareno. “Nicola potrebbe presentarsi in Assemblea, che è il nostro parlamentino, fare la sua relazione e ricandidarsi per una piattaforma nuova”, dice al nostro giornale una fonte parlamentare. Non senza aggiungere, però: “Ma non credo che lo farà”. Una cosa è sicura: “Se non ha questa intenzione, il suo è stato un disegno lucidissimo. Facendo esplodere le contraddizioni interne, infatti, si è in qualche modo vendicato delle correnti. Anche se con il rischio alto di far saltare tutto il partito”. Se l’intenzione era di restare, invece? “In quel caso ha sbagliato i tempi perché avrebbe dovuto aspettare l’assemblea”.

Detto questo, il problema della successione rimane. Ed è su tale fronte che sono dispiegate le maggiori energie democrat. Tutti a caccia del nome giusto, della persona più adatta alla guida. Riflettori accesi soprattutto sulla componente femminile del Pd. E qui i nomi che si rincorrono sono diversi. C’è chi fa quello di Anna Finocchiaro. “Un'altra personalità importante - spifferano ad Affari - è Rosy Bindi”. Ma, attenzione: in ambienti dem c’è pure chi invita a una riflessione: “Sia Bindi che Finocchiaro sono due persone autorevoli e stimate, tuttavia stanno fuori. Potrebbero non reggere il confronto con Giuseppe Conte, non avendo davanti la prospettiva di continuare. Il Pd, in questo modo, rischia davvero di trovarsi tra un anno al 5 per cento dei sondaggi”.

Perché la riorganizzazione del M5s, cui sta lavorando l’ex premier, insieme alle sfide che pone il governo Draghi, è il ragionamento, “obbligano ad una scelta di alto livello. Uomo o donna che sia”. La stessa riflessione la si fa per Roberta Pinotti, altro nome in pole position in queste ore. E’ proprio intorno all’ex ministro della Difesa, di area franceschiniana, che, a quanto apprende Affaritaliani, la minoranza dem starebbe cercando di trovare un accordo unitario. Ad insidiare un’ascesa della Pinotti potrebbe essere però un’altra donna, questa volta una zingarettiana di ferro: Cecilia D’Elia. Ma come sintetizza un autorevole esponente Pd dietro garanzia di anonimato, il partito adesso non può impiccarsi alle quote rosa come unico criterio: “Non è un tema che può orientare la scelta. Mettiamola così: se ci fosse Nilde Iotti direi subito sì. E lo stesso discorso vale anche per gli uomini. La stragrande maggioranza sono ormai ‘consumati’”.

Seguendo il filo di questo ragionamento, sarebbero in calo le quotazioni di Piero Fassino. Più chance, invece, ci sono per Graziano Delrio che “potrebbe essere un buon punto di caduta, in grado di non scontentare la minoranza e in generale non inviso nel partito”. E Andrea Orlando? L’attuale vicesegretario vuole rimanere in plancia di comando. “Le resistenze interne sono forti, ma il suo obiettivo a breve termine è almeno quello di restare vicesegretario. Anche se punta alla guida fino al congresso per poi candidarsi”. Ma il maggiore ostacolo per l’attuale ministro del Lavoro sulla strada della segreteria è nel governo di cui fa parte e nel quale i leader delle forze politiche non sono entrati. Finirebbe, infatti, con lo scompaginare gli equilibri dell’esecutivo. A mettere d’accordo un po’ tutti poteva essere l’ex premier Enrico Letta che, però, ha comunicato la sua indisponibilità. “A Letta – dicono al nostro giornale – doveva chiederlo tutto il Pd. Allora forse la prospettiva poteva cambiare”.

Come finirà? Non è facile fare previsioni. Una cosa è certa: in caso di dimissioni del segretario, il pallino è in mano all’assemblea. “Si tratta di mille delegati. E qui - avverte chi conosce bene dinamiche e meccanismi del partito – non ci sono capi-bastone che reggano. Oggi le correnti sono forti a Roma, ma inesistenti sui territori”. Proprio guardando alla composizione dell’attuale assemblea e facendo di calcolo, infatti, sottolinea: “Circa 600 delegati non prendono indicazioni da nessuno. Paradossalmente, quindi, seguirebbero con più facilità la strada tracciata da Zingaretti che, appunto, correnti non ne ha create”.

Si torna dunque al segretario dimissionario. Non è escluso neppure che venga presentato un ordine del giorno in assemblea per chiedergli di restare. “In questo caso bisognerà vedere se, anche di fronte una domanda forte e unitaria, Nicola decida lo stesso di rifiutare. E’ una questione molto delicata perché il rischio implosione non è da sottovalutare”. Tra le fila dem, soprattutto tra gli esponenti più vicini a Zingaretti, ci si aspetta comunque che di fronte a dimissioni irrevocabili “tracci almeno la strada. Indichi una rotta”. Bene, ma quale? Ha in mente una exit strategy?

“Le opzioni sono nelle sue mani – evidenzia una fonte del Nazareno –. Dovrà essere lui a indicare un successore o un gruppo dirigente che ci guidi al congresso”. E qui il ventaglio delle opzioni, a partire dal nome di Cecilia d’Elia, si amplia: “Potrebbe fare il nome di Francesco Boccia, per esempio. O quello di Giuseppe Provenzano, due esponenti di spicco del Partito democratico, forti tra l’altro di una fresca esperienza di governo e, quindi, già avvezzi ad affrontare la questione pandemica con l’esecutivo Draghi”. La stessa fonte, tuttavia, ragionando ad alta voce, mette a nudo pure le difficoltà di un percorso del genere: “Nel Pd non mancano le energie. Nessuno, comunque, è disposto a bruciarsi se non è chiara la prospettiva. “Se c’è una ritrovata unità interna e un mandato definito, da qui al 2022, allora si può ragionare. Altrimenti, chi mai deciderebbe di immolarsi per una forza politica che sa già di non poter governare?”.  Il nodo è di quelli gordiani, in effetti. Anche perché “senza queste minime garanzie, nessuno si presterebbe a passare alla storia come liquidatore del Pd. Una probabilità che è alta. Perché il rischio di fare la fine del partito socialista francese è reale”.

 

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