Ecco perché questa riforma elettorale non andava bene
Dentro il Pd senza contare sugli incidenti parlamentari
di Massimo Mucchetti*
Dunque, la legge elettorale è già morta? Vedremo che cosa dirà la segreteria del Pd oggi pomeriggio. Nel frattempo, due parole sulle minoranze dello stesso Pd. Mi sia consentito di partire da un fatto personale. In questi giorni viene fatta circolare l’indiscrezione secondo la quale mi accingerei a uscire dal partito. Qualche giornale l’ha ripresa senza verificarla. “Il Foglio”, in particolare, scrive che nell’incontro delle minoranze di martedì 6 giugno avrei minacciato l’abbandono se la maggioranza renziana avesse insistito su questa legge elettorale e sull’anticipo delle elezioni. L’indiscrezione non è vera.
Per due ragioni. La prima è che non posso uscire da un partito del quale non ho mai avuto la tessera. Alla fine del 2012, l’allora segretario, Pierluigi Bersani, mi chiese di fare il capolista per il Senato in Lombardia senza pretendere iscrizioni. Secondo il direttore Ferruccio de Bortoli, lasciare il “Corriere” costituiva un errore. Lo ha ricordato anche nel suo libro “Poteri (quasi) forti”. Ma la ragione che mi spingeva ad accettare la richiesta del Pd era ed è più forte: rendere un servizio al Paese, mettendo a disposizione del principale partito di governo, in regime di libertà, idee, spunti e proposte che avevo elaborato in piena autonomia da giornalista. L’esperienza di palazzo Madama ha dimostrato che si può essere un nominato e non un soldatino.
Con questo stesso spirito, e in forza di statuti, regolamenti e prassi che in tali materie riconoscono libertà di coscienza, martedì 6 ho preannunciato un voto negativo sulla legge elettorale. Preannunciare il voto è un atto di battaglia politica dentro il gruppo parlamentare del Pd, nel quale sono rimasto quando altri colleghi hanno costituito Mdp. E questa è la seconda ragione per cui l’indiscrezione non è vera.
Se fosse ancora con noi, l’immortale Boskov direbbe: “Le partite finiscono quando arbitro fischia”. E ci sono almeno cinque motivi per restare in trincea su posizioni che hanno il consenso di corpi intermedi come Confindustria e sindacati. Eccole: 1) questo ddl elettorale indebolisce la possibilità di dare un governo al Paese; 2) abbassa il grado di rappresentatività del complesso degli eletti: la presenza di nominati non è una bestemmia, ma lo diventa se è troppo larga e militarizzata; 3) disegnando i collegi già nel ddl, si prefigura l’anticipo delle elezioni con l’effetto di licenziare il terzo governo a guida Pd a opera dello stesso Pd, il che è tragico ma non serio; 4) l’anticipo delle elezioni, la prospettiva dell’esercizio provvisorio e l’alternativa finale tra un governo a trazione grillina e un compromesso assai poco storico tra Pd e Forza Italia aumentano l’incertezza e allarmano i mercati, mettendo a rischio il debito pubblico, e dunque il risparmio; 5) l’obiettivo di un governo di legislatura Pd-Forza Italia – cosa diversa da una coalizione d’emergenza e provvisoria, eventualmente necessitata dall’esito elettorale quale fu il Letta Uno – cancella il futuro della sinistra e annulla ogni possibilità di un governo di centro-sinistra.
Le correzioni di dettaglio al ddl elettorale sono sempre benvenute, ma non superano le cinque difficoltà che ho indicato. Mi auguro che le minoranze sappiano pesare i rischi politici generali e si dimostrino conseguenti opponendosi in modo chiaro, fuori dal politichese, al mercato in corso tra Renzi e Berlusconi, senza delegare a incidenti parlamentari, come quello di stamane, la soluzione del problema. Se così non fosse, se si accontentassero di un piatto di lenticchie, sancirebbero la loro irrilevanza. Allinearsi al peraltro traballante accordo tra i quattro leader perché rappresenterebbero l’80% del Parlamento mi pare un argomento debole: se i rischi per il Paese sono quelli, non si può avere meno determinazione di quella che portò 15 docenti universitari a rifiutare il giuramento di fedeltà al fascismo mentre 1200 colleghi chinavano il capo. Oggi non si rischia la dittatura ma un regimetto conformista, che tuttavia basta a portare l’Italia alla deriva. Dire di no non fa perdere la cattedra, ma al massimo la benevolenza del capo.
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