Politica

Matteo Renzi, il successo dell'insuccesso

Matteo Renzi non domina il suo carattere: ne è dominato. L'ANALISI

Di Gianni Pardo

Un detto insegna che: “Nulla ha più successo del successo”. Se un prodotto commerciale, un attore, un uomo politico cominciano ad avere successo, i loro acquirenti o i loro simpatizzanti aumentano a vista d’occhio. Perché ognuno si fida del giudizio degli altri e consciamente o inconsciamente sale sul carro del vincitore.

Le cose vanno così anche al negativo. Si potrebbe dire che: “Nulla ha più insuccesso dell’insuccesso”. La tendenza ad allontanarsi dal perdente è legata all’istinto di protezione di sé e dei propri interessi. Quando si profilano delle elezioni ciò diviene: “Se molti dicono che questo politico sarà sconfitto, io sosterrò un altro”.

Oggi il crudele meccanismo – a torto o a ragione - sembra funzionare contro Matteo Renzi. È vero che in poco tempo questo campione di simpatia è riuscito a sprecare il suo capitale, ma sembra anche che la fortuna gli abbia voltato le spalle e in molti, temendo per la propria sorte, più o meno copertamente gli consigliano di fare le valigie e andarsene. Forse prima ha avuto più successo di quel che meritava, ora non fa che accumulare insuccessi. A volte la malasorte sembra addirittura che lo derida. Nelle sue ciniche intenzioni la nuova legge elettorale avrebbe dovuto favorire la coalizione capeggiata dal Pd e tagliare le unghie al Movimento 5 Stelle, tanto che l’ha imposta a colpi di voti di fiducia. Invece si direbbe che a conti fatti il “Rosatellum” dovrebbe chiamarsi “Tafazzellum”.

Tutto è andato per il verso storto. Il Pd ha subito una scissione e piuttosto che aumentare le sue forze le ha viste diminuire. I tentativi di aggregare intorno a sé il gruppo di Pisapia e il partitino di Alfano sono andati a male e in totale, per dirla col “Fatto Quotidiano”, il povero Renzi “l’hanno rimasto solo”. Inoltre, secondo una nota di Massimo Franco, sul “Corriere della Sera”, si osserva “una sorta di ‘strategia della fuga da Matteo Renzi”. Né meglio è andata con l’improvvida iniziativa di dichiarare guerra al Governatore della Banca d’Italia Visco. Renzi prima ha provato a “farlo fuori” con un (illegittimo) voto in Parlamento, facendosi poi sconfessare da Gentiloni e Mattarella. Poi ha insistito per avere una Commissione d’Inchiesta sul crac di tante banche – operazione con la quale sperava di far ricadere tutte le colpe sulla Banca d’Italia, posando nel frattempo a nemico delle banche e vindice dei clienti truffati – e il risultato è che, di fatto, quella Commissione è stata vista come il tribunale che ha dichiarato la colpevolezza di Maria Elena Boschi. E comunque il fatto che non si parli che di questo, al di là delle eventuali responsabilità dell’allora ministra, è un grave danno per il partito in questa già focosa campagna elettorale. Troppa sfortuna o troppe mosse sbagliate.

Qualcuno – non si sa quanto pessimista e quanto realista – parla di un Pd ridotto più o meno al 20% delle intenzioni di voto. Tempo fa l’ipotesi che Matteo Renzi fosse costretto a gettare la spugna era impensabile, oggi la segreta speranza dei bersaniani è azzardata ma non folle. La carriera politica di Renzi potrebbe essere ricordata per lo straordinario successo e l’incredibile brevità.

Si sarebbe tentati di esprimergli comprensione, ma purtroppo disturba la sua incapacità di imparare dagli errori. Già nell’estate del 2016, quando ha cominciato ad apparire possibile un insuccesso al referendum, la sua reazione è stata frenetica ed esagerata. Infine ha gettato sul piatto della bilancia sé stesso, diventando onnipresente e fastidioso come la pubblicità di “Poltrone e Sofà”. Ha trasformato il voto in un plebiscito sul suo nome ed è stato un errore fatale: pensava di raddrizzare la situazione e l’ha peggiorata. Molti hanno visto nel “no” lo strumento con cui liberarsi da questo seccatore. Il quale poi non ha percepito le dimensioni della catastrofe. Traendone la lezione, la prima opzione sarebbe stata quella di ritirarsi a vita privata, come aveva promesso e come fece De Gaulle. Avendo scelto di proseguire la vita politica, avrebbe almeno dovuto fare come quelle squadre di calcio che, retrocesse per punizione, risalgono a poco a poco la china, riconquistando gli amici a forza di sorrisi ed umiltà, dando a tutti la sensazione che li rispettava e li amava. Anche se fosse stata tutta una recita.

Ma quell’uomo non domina il suo carattere: ne è dominato. Ha continuato a credere di poter fare a meno di chiunque, e che la vittoria non potrà non cedere al suo fascino personale. Cita instancabilmente il 40% ottenuto alle europee, come se nel frattempo non fosse passato un oceano d’acqua, sotto i ponti, e suscita ironie sostenendo che il 41% di sì al referendum è stato un definitivo consenso a lui personalmente. E allora non è salvabile. Forse gli riuscirà soltanto ciò che non è riuscito a Berlusconi: distruggere la sinistra.

giannipardo@libero.it