Politicamente corretto o polizia del linguaggio?
Il neo-autoritarismo del politicamente corretto e il suo contrario. Serve una terza categoria, capace di sfidare l’isolamento…
E’ successo pochi giorni fa a Monaco, in occasione della conferenza internazionale sulla sicurezza. Il ministro degli esteri inglese Boris Johnson, uomo di cultura vasta e idee forti, e dotato di un linguaggio vivo, insieme magicamente alto e popolare, ha definito Brexit una “liberazione” per il suo paese.
Apriti cielo! Dalle prime file si è alzata, indignata e solenne, la signora Corazza, dal 2009 europarlamentare svedese, moglie dell’ex primo ministro Carl Bildt. Con voce ferma, ha definito di cattivo gusto (“bad taste”) l’uso della parola “liberazione”. Johnson l’ha guardata con fare ironico, non ha potuto fare a meno di commentare la “pomposity” della signora, e poi ha ben spiegato che “liberazione” vuol semplicemente dire “rendere liberi”, e ciò è esattamente quello che gli elettori inglesi hanno inteso fare per riprendere il controllo (“take control back”) della loro immigrazione e della loro politica commerciale.
Non paga di questo poco brillante primo round, la signora Corazza ha preso carta e penna, e ha scritto una lunga geremiade sul Guardian, tempio della sinistra inglese, scomodando l’antifascismo e l’antinazismo, bacchettando Johnson sul 1944 e sul 1945.
Siamo dinanzi a una orwelliana “polizia del linguaggio”. Gli agenti del politicamente corretto lavorano ventiquattr’ore su ventiquattro per rivendicare a sé l’ultima parola (storica, morale e perfino estetica!) sull’uso di aggettivi e sostantivi, su cosa si possa dire e su come si debba dirlo.
Il politicamente corretto sta facendo danni inenarrabili, privandoci del piacere e della sfida intellettuale di dire cose audaci, di confrontarci tra visioni valide ma diverse e competitive, di uscire dagli schemini, dal prevedibile, dal già sentito e dal già detto.
Purtroppo, sul versante opposto (e non è certamente il caso di Johnson!), si reagisce spesso con eccessi di segno opposto, con professionisti dela volgarità e della provocazione. Non si tratta (si pensi al famigerato Milo Yiannopulos, profeta dell’alt-right americana) di coraggiosi guerrieri del free-speech, ma di furbetti che vogliono semplicemente fare l’altra parte in commedia. Per ogni poliziotto (o per ogni vigilessa) del linguaggio politically correct, loro vogliono fare i soldatini della ribellione. Ma sono uguali e contrari ai loro “avversari”: gli uni conformisti del pro, gli altri conformisti dell’anti, uniti da un comune copione in cui ciascuno recita le proprie battute.
Serve una terza categoria: quella dei non-incasellati, dei non-prevedibili. Capaci di attraversare il difficile territorio della solitudine, dell’isolamento, del non essere accettati né compresi.
Daniele Capezzone
Deputato Direzione Italia
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