Pd fra fischi e fiaschi. Un partito ormai senza dignità politica
Il Pd è ridotto a un caravanserraglio blindato: chi è dentro si contende come può quel che resta, fino all'ultimo moccolo di candela
Di Massimo Falcioni
Con l’Assemblea nazionale di sabato 19 maggio a Roma il Partito democratico ha gettato la maschera dopo la batosta delle urne del 4 marzo perdendo gli ultimi brandelli di lucidità e dignità politica. Invece di tentare di rimettere almeno i cerotti a una facciata piena di lividi, la cosiddetta maggioranza e la cosiddetta minoranza (cioè i renziani e gli anti renziani) si sono sparati addosso l’un contro l’altro qual poco che ancora rimaneva di riserva: non bombe H, cianfrusaglie, in un campo di battaglia di retroguardia che tutt’al più richiama al campetto dei sobborghi della partitella fra scapoli e ammogliati. Il Pd è ridotto a un caravanserraglio blindato: chi è dentro si contende come può quel che resta, fino all’ultimo moccolo di candela. Quello che fu il grande partito di massa organizzato erede della sinistra storica – in primis del Pci - ma anche depositario di parte del popolarismo cattolico – in primis della Dc - si è trasformato via via in un ibrido contenitore incapace persino di tenersi il potere e raccogliere voti, inchiodato nel proprio caos delle fratture interne, sempre più lontano dalla realtà, una mina vagante senza un progetto, un programma, una leadership. Di fronte ai renziani e agli anti renziani persino gli “apprendisti stregoni” quali Salvini e Di Maio appaiono giganti della leadership e statisti dalle svolte storiche e di fronte ai resti del Partito democratico persino Lega e M5S sembrano grandi partiti strutturati e democratici della nostra prima Repubblica con la capacità di ammodernamento (anche sul piano dell’organizzazione, della comunicazione, dell’immagine) dei grandi partiti moderni americani e occidentali. Un partito ridotto così non serve né alla sinistra né all’Italia ed è destinato a consumarsi fino in fondo prima di finire nei libri di storia, nelle noti brevi. Inutile tentare di districarsi nel ginepraio da guerriglia delle faide interne di come si è svolta l’Assemblea, capace persino di far saltare l’ordine del giorno “rimandando” cioè l’unica questione politica vera del nodo del segretario (quindi della linea politica e dell’identità) e dell’inquadramento interno (quindi del potere nel partito) con una conta-bluff (data la composizione dei partecipanti) favorevole a Matteo Renzi, pur con una spaccatura che però non cambia nulla tanto meno cambia la sostanza dell’andamento del gioco. In un andazzo così, aprire l’Assemblea dell’Ergifecon le note dell’Inno di Mameli e osservare un minuto di silenzio per le vittime sul lavoro, appare come una stonatura, come un mantello trovato per strada e buttato addosso per coprire le proprie colpe sperando nella comprensione di chi giudica, in questo caso gli elettori. E adesso? Divisi e lividi, i contendenti (quanti sono davvero i tronconi e i rami e rametti al centroe in periferia?) restano ancor di più “nudi e crudi”, oramai fuori dal potere e lontani dagli italiani mentre nasce il nuovo governo “giallo-verde” che definirlo “rivoluzionario” è dire poco. Comunque andrà, il Partito democratico o quel che ne resterà, oggi è “out”, fuori tempo e fuori gioco. Chi raccoglierà la sfida della ripartenza a sinistra, di fatto l’ultima battaglia contro Renzi neo centrista con o senza pidì? Zingaretti “saponetta” o Martina il “reggente” del moccolo? Una questione grave ma non seria, di sicuro un interrogativo di nessun interesse per gli italiani impegnati a sciogliere ogni giorno ben altri nodi.