Politica
Pd-M5s, ecco perché l’alleanza non decolla
Territori e base non rispondono ai diktat di Roma. Alleanza - forse - solo a Napoli e Bologna
La sfida delle amministrative di ottobre non è poi così lontana. Ad essere lontana, invece, è l’agognata alleanza Pd-M5s. Su questo fronte, infatti, la montagna si appresta a partorire un topolino. E come in un déjà vu le differenze tra le due forze politiche, almeno sui territori, si rivelano ancora una volta un muro difficile da abbattere. Pertanto, chiunque tenti l’impresa alla fine pare destinato a ritrovarsi con un pungo di mosche in mano. E’ già successo, appunto, con la débacle delle Regionali del 2019. Come non ricordare la famosa photo opportunity a Narni, in Umbria, che vide schierati tutti insieme appassionatamente Roberto Speranza, Luigi Di Maio, Giuseppe Conte e Nicola Zingaretti. La partita, poi, si sa come è andata a finire. Oggi il quadro è diverso: Di Maio non è più capo politico del M5s e Zingaretti non guida più il Pd. Hanno lasciato il testimone a Conte, che all’epoca era premier, e a Enrico Letta, rientrato da Parigi carico di belle speranze.
Tuttavia, allora come oggi le intese non decollano. O per lo meno non decollano come i principali attori e promotori dell’alleanza organica giallorossa vorrebbero. Una materia davvero scivolosa. Ma soprattutto difficile da plasmare e adattare a livello locale. “Lasciate ogni speranza voi ch’entrate”, sarebbe il caso di dire. E chi più di Zingaretti può sostenerlo, avendo investito tanto in questa impresa, fino all’ultimo sacrificio di rinunciare alla corsa per il Campidoglio, pur di non mettere a rischio quel barlume di alleanza faticosamente raggiunto in giunta alla Regione Lazio? Ma tant’è. La parola d’ordine nel quartier generale romano è andare avanti. Persino Letta si è lasciato ammaliare dalle sirene bettiniane (Goffredo Bettini è sempre stato tra i principali sponsor della ‘liaison’ con i pentastellati) al punto da invocare a più riprese persino un ritorno ad una legge elettorale di stampo maggioritario. Peccato però che, a conti fatti, i calcoli si siano rivelati in parte sbagliati.
Basta guardare alle grandi città al voto per capire che il raccolto, dopo i chilometri macinati dall’ex ministro Francesco Boccia - a cui è stato affidato il dossier amministrative in casa dem – è magro. Lasciamo da parte Milano. Qui, infatti, il sindaco uscente e ricandidato Giuseppe Sala si è subito tirato fuori dai giochi con il suo “no, grazie” ai grillini. Nel capoluogo lombardo, quindi, non c’è stata partita sin dall’inizio e le strade erano e restano separate.
Tutt’altra storia invece a Torino. Il passo indietro di Chiara Appendino non è servito fino a questo momento ad agevolare la scelta di un candidato comune. Al punto che la sindaca uscente, l’11 maggio scorso, è arrivata a escludere “al 100 per cento che il M5s appoggi il Pd al ballottaggio”. All’indomani, le parole di Giuseppe Conte avevano creato qualche aspettativa. Dalle colonne del Fatto Quotidiano, infatti, aveva parlato di “un candidato della società civile che può mettere insieme tutti ed essere molto competitivo”. Al momento, tuttavia, regna lo stallo. O per essere più ottimisti, la situazione è fluida. Da parte del M5s continua un forte pressing nei confronti di Appendino, nonostante la prima cittadina abbia deciso di non ricandidarsi. Il punto di caduta, chissà, potrebbe essere il rettore del Policlinico di Torino Guido Saracco. Intanto, il Pd si appresta alle primarie cittadine del 12-13 giugno con in pista, tra gli altri, proprio uno dei principali oppositori della giunta pentastellata, il capogruppo in Consiglio comunale Stefano Lo Russo.
Se ai piedi della Mole, però, neppure il passo indietro della sindaca M5s è riuscito ad azzerare le distanze che per l’intera consiliatura hanno diviso Pd e Cinque stelle, a Roma la situazione è ancora più complessa. All’ombra del Colosseo, Virginia Raggi è rimasta in campo, pronta a giocarsela per il bis e lo stesso Conte ha dovuto alla fine darle il suo appoggio esplicito, mandando alle ortiche le speranze – poco realistiche – di un’alleanza sin dal primo turno tra i giallorossi. Se al ballottaggio si affermassero Raggi o, in caso di vittoria alle primarie, l’ex ministro Pd Roberto Gualtieri cosa bisogna aspettarsi? Le due forze politiche troveranno la forza di sostenersi? Non è ben chiaro, ma soprattutto non è possibile prevedere quale sarà l’atteggiamento dei rispettivi elettori, abituati per cinque anni a vedere volare gli stracci tra dem e Cinque stelle.
Una cosa è certa: almeno questo problema pare superato a Bologna. Qui, infatti, il Movimento ha già messo in chiaro la linea: l’asse col Pd reggerà solo se le primarie incoroneranno il candidato dem Matteo Lepore e non se dovesse prevalere la renziana Isabella Conti.
L’unica chance per rinverdire l’alleanza giallorossa, che ha ormai ha assunto tonalità crepuscolari, a questo punto, rimane Napoli. Ormai tramontata l’ipotesi Roberto Fico – benedetta a Roma anche dal Pd senza però fare i conti con i dem locali e soprattutto con un pezzo da 90 come il governatore della Campania Vincenzo De Luca -, l’ex ministro dell’Università Gaetano Manfredi dovrebbe alla fine riuscire a mettere tutti d’accordo. Il condizionale è d’obbligo, in questi casi. Pure al Nazareno, non a caso, hanno cominciato a comprendere che la tanto ambita alleanza giallorossa non è un esperimento facile da traslare a livello territoriale. E che, forse, insistere potrebbe anche produrre smottamenti sul piano nazionale. Il dubbio aleggia. Sarà un caso, ma anche il sacro fuoco per il maggioritario, che stava cominciando a contagiare una parte dei dem, inizia a spegnersi. E un po’ tutti battono la ritirata sul proporzionale. Per la gioia, questa sì, del Movimento, che non ha mai smesso di sponsorizzare tale sistema elettorale.