Politica

Programma elettorale Verdi e SI - Elezioni 2022, le proposte dei "rossoverdi"

Scopri nel nostro approfondimento tutti i punti del programma elettorale di Verdi e Sinistra Italiana per le elezioni politiche 2022

15. L’ITALIA DELLA CULTURA

Il sistema dell’istruzione e della formazione è oggetto di un processo di snaturamento, rispetto alle finalità di liberazione ed emancipazione che la Costituzione gli assegna. Impoverito, precarizzato, burocratizzato e piegato alle logiche del mercato. È una spinta che viene da lontano ed ha caratteri globali, ma che nell’ultimo decennio, nel nostro Paese, e in particolare coi governi Renzi e Draghi, ha conosciuto una evidente intensificazione, di cui gli indirizzi del PNRR costituiscono un segno evidente. Ultimo atto, rivelatore di una china ancor più pericolosa e inaccettabile, è l’impressionante aumento della spesa militare, a fronte di una riduzione del bilancio dello Stato sull’istruzione. Un mare di soldi per la guerra, un taglio al sapere (come alla salute); è una logica che respingiamo alla radice, anche perché evidenzia una prospettiva e un modello di società che consideriamo orribili e che la maggioranza degli italiani rifiuta.

La formazione e la ricerca, la loro libertà, la qualità e le finalità che le orientano sono una grande questione democratica. Sono, anzi, componente essenziale delle democrazie, in un’era in cui, all’inizio di un secolo e di un millennio, assistiamo alla loro profonda crisi, al consolidarsi di una loro involuzione autoritaria (che guerra e riarmo non possono che accelerare), ad un pericoloso mutamento del rapporto tra libertà e capitalismo globale. Occorre ribaltare la funzione prevalentemente produttivistica del sapere, nel linguaggio come nella sostanza; una logica aziendalista nella gestione, una quantificazione esecutiva nelle metodologie, un prevalente economicismo nelle finalizzazioni. Questa subalternità sostanziale nell’universo formativo è quasi plasticamente sovrapponibile (ed evidentemente funzionale) a quanto è avvenuto nei processi produttivi, nel mondo del lavoro, nella progressiva privatizzazione delle relazioni sociali e dei beni comuni; in estrema sintesi: l’assunzione delle compatibilità del capitalismo globale, e delle sue espressioni periferiche, come dato oggettivo e tendenza naturale della storia. Le conseguenze, a cominciare da quelle ambientali, sono sotto gli occhi di tutti e la pandemia non ha fatto altro che evidenziarle e amplificarle. In questo senso, il governo Draghi e il PNRR possono essere considerati un distillato di quelle tendenze decennali.

Scuola
Il mondo della scuola, in tutte le sue componenti, non può più essere oggetto passivo di provvedimenti imposti dall’esterno, ma deve essere coinvolto seriamente nei propri processi di riforma e cambiamento.
Per queste ragioni, uno dei primi atti che attiveremo, nel nuovo Parlamento, sarà una proposta di legge che – previa un’ampia discussione con tutte le componenti della scuola – in estrema sintesi, preveda:

la riduzione ad un massimo di 20 alunni per classe (15 se presente uno/una alunno/a con disabilità) e il recupero di immobili pubblici, compresi quelli appartenenti al demanio militare con priorità di destinazione ad uso scolastico; non solo per ragioni sanitarie, ma per consentire una didattica realmente inclusiva, maggiormente attenta ai processi di crescita individuale, ulteriormente qualificata e al livello dei problemi che la trasformazione digitale determina nella conoscenza, oltre che per attivare serie ed efficaci misure di contrasto all’abbandono scolastico; per raggiungere questo obiettivo, è anche necessario che venga abrogato quanto previsto dal Decreto Legge 25 giugno 2008 n. 112, art. 64, comma 6, a firma Tremonti, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 13. Norme che hanno incrementato di un punto il rapporto alunni/docente per classe e determinato l’effetto immediato della perdita di ben 86.931 posti da insegnanti con un aumento inevitabile del numero degli studenti per classe;
l’estensione del tempo scuola (tempo pieno e tempo prolungato, a seconda dei diversi ordini di scuola) in tutte le scuole del territorio nazionale; affinché sempre meno giovani e adolescenti siano lasciati soli con le proprie difficoltà; proponiamo, tra l’altro, di estendere l’obbligo scolastico a 18 anni.
la gratuità dell’istruzione, dal nido all’università, per tutte e tutti; assumendo, cioè, il diritto universale al sapere come carico di una fiscalità generale realmente progressiva e come parte di un patto tra le generazioni;
la creazione di Zone di educazione prioritaria e solidale – con ulteriori interventi di organico e finanziari – nelle aree di maggiore difficoltà sociale e culturale; ribaltando la logica che premia e rafforza, fuori da ogni logica solidale, solo le realtà più forti e solide; in aperta controtendenza con l’indirizzo a valorizzare e finanziare le scuole che abbiano conseguito risultati brillanti nei test standardizzati, crediamo che proprio le realtà scolastiche che mostrano più sofferenza debbano essere destinatarie di finanziamenti mirati, di progettualità forti e innovative incentrate sui Collegi docenti, di un aumento del rapporto tra organico e studenti;
l‘assunzione di un nero moto più ampio di docenti a tempo indeterminato, sia di base che di sostegno, anche stabilizzando coloro che insegnano precariamente da più tempo;
l’intervento di massiccio potenziamento di un trasporto pubblico gratuito ed ecologicamente sostenibile, accessibile alle persone con disabilità
;
l’allineamento dei finanziamenti ordinari al sistema dell’istruzione alla media europea (6% del PIL);
✓ Negli ultimi due anni e mezzo la scuola ha guadagnato una temporanea visibilità: l’emergenza pandemica, infatti, ha travolto il sistema scolastico mettendone in evidenza ogni crepa, determinata prevalentemente da involuzioni legislative, ritardi e tagli; tanto la lotta alla dispersione scolastica, quanto l’inclusione sono state le prime vittime immateriali della pandemia; occorre, anche per questo, prevedere adeguati investimenti per un serio supporto psicologico a studenti e studentesse.

✓ Altrettanto urgente è ripensare – ampliando numeri, spazi, metodi e funzioni – la partecipazione di studenti e studentesse alla vita e all’organizzazione della scuola, per superarne una evidente burocratizzazione e rimotivare tutte le componenti scolastiche – pur nella distinzione dei ruoli – ad una visione realmente democratica e partecipativa.

✓ Nell’ottica di subalternità alle “esigenze dell’impresa” (assunte come paradigma assoluto), vi è stata una spinta alla trasformazione di istituti tecnici e professionali, ripensati solo allo scopo di “colmare il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro”; occorre, invece, considerare ogni indirizzo della scuola secondaria superiore come occasione di formazione e crescita umana e civile; riaprendo, semmai, la riflessione su un biennio unico.

✓ L’ingente stanziamento di risorse in edilizia – che dovrebbe, tra l’altro, privilegiare il recupero del patrimonio pubblico e le fonti rinnovabili – si dimostra un intervento di facciata, in assenza di stanziamenti che, a fronte di nuove strutture, possano poi coprire i costi del servizio e quindi del personale.

✓ In Italia si nega ancora il riconoscimento giuridico del diritto di cittadinanza, alle persone di origine straniera, nate in Italia e figli di immigrati, e tra esse, tanti studenti e studentesse, pur se condividono una condizione di fatto indistinguibile da quella vissuta da studenti italiani “di diritto”.

✓ In aperto contrasto con la scuola aziendalista, occorre aspirare a una scuola plurale, aperta, partecipata, in cui ogni individuo possa riconoscere le proprie aspirazioni e le proprie potenzialità, indipendentemente dalle domande del mercato. È necessario far sì che la scuola torni a essere un vettore di mobilità sociale e non che certifichi, cristallizzi o addirittura moltiplichi le disuguaglianze in essere.

Intervenire con una legge ad hoc per contrastare la piaga della povertà educativa nelle periferie e nelle realtà più sofferenti.
Cambiare radicalmente finalità e metodologie degli strumenti INVALSI, rimettendo al centro le scuole, i loro organi collegiali, per il recupero di limiti e ritardi; occorre ribaltare l’impostazione di un PNRR che riempirebbe di soldi le scuole “meritevoli” e di inutile tutoring le scuole in maggiore difficoltà, invece di garantire organici e finanziamenti.
Cancellare l’attuale legislazione relativa ai PCTO (alternanza scuola-lavoro), aprendo una riflessione seria, nel mondo della scuola in tutte le sue componenti, sul rapporto tra formazione scolastica, mondo del lavoro, competenze professionali, diritti; per lavorare ad una nuova legislazione che tenga fermamente al centro il percorso educativo e formativo e la crescita complessiva dei ragazzi e delle ragazze.
Non confondere l’attività formativa scolastica, con altre attività, che possono arricchirla e stimolarla, ma non sostituirla; essa deve essere l’espressione di un progetto educativo elaborato dalla comunità scolastica. I patti territoriali di comunità e le alleanze con il territorio dovranno prevedere che ogni progetto venga promosso dalla scuola, proprio per rispettare le sue prerogative costituzionali senza alcuna possibilità di deroga e di delega.
Opporsi all’autonomia differenziata non solo perché tocca i diritti e la loro universalità, ma anche perché, nel contesto scolastico, essa, in preoccupante sinergia con l’interpretazione dominante dell’autonomia scolastica, determina una inaccettabile frantumazione del sistema formativo nazionale sul piano delle diseguaglianze materiali, dei contenuti e delle metodologie formative.
Aumentare la presenza degli educatori su tutto il territorio nazionale poiché rivestono un ruolo fondamentale nella gestione delle dinamiche socio-affettive all’interno del gruppo classe.
Abbandonare la logica del risparmio che ha contraddistinto tutti i recenti provvedimenti in materia di assunzione e reclutamento del corpo docente. L’ultimo Decreto, concepito fuori da ogni logica di concertazione democratica, ha trasformato l’accesso al ruolo, di chi insegna da anni, in una “corsa ad ostacoli”. Va aperta una discussione seria sul superamento del precariato e sulla formazione dei docenti. Serve una riforma che vada in tutt’altra direzione: garantire percorsi lineari e costanti per un lavoro stabile e una formazione rigorosa, seria e gratuita. È necessario che i docenti siano numerosi in rapporto agli studenti, siano ben formati e soprattutto siano stabili e possano garantire quella continuità didattica che è presupposto fondamentale per qualsiasi progettualità curricolare.
Ritornare all’esperienza dell’organico funzionale ovvero di un monte ore aggiuntivo a quello strettamente curricolare, di cui le scuole dispongano, per articolare progettualità specifiche; investire per garantire un sostegno psicologico permanente nelle scuole, che nel periodo pandemico si è dimostrato un presidio imprescindibile, ma garantito in pochissime realtà.
Mettere a centro del percorso di istruzione esperienze formative che concorrano, nella loro pluralità e gradualità, a formare dei cittadini critici, consapevoli, liberi.
Assumere e garantire stabilità e la maggiore continuità possibile ai docenti di sostegno poiché la continuità didattica alimenta la qualità del ciclo insegnamento-apprendimento; così come crediamo che sia giusto porre il problema di estendere garanzie (in termini di retribuzione e diritti) ad altre figure professionali che operano nella scuola per gli alunni con disabilità, come gli assistenti per l’autonomia e gli assistenti alla comunicazione che rappresentano un veicolo fondamentale per l’inclusione degli alunni con disabilità.
Per favorire la frequenza e la partecipazione attiva delle studentesse e degli studenti con disabilità è necessario -abbattere le barriere architettoniche in ogni istituto scolastico di ogni ordine e grado.

– combattere l‘inadeguatezza e la lentezza dei finanziamenti per l‘acquisizione di ogni ausilio utile all’inclusione e al percorso apprenditivo degli alunni con disabilità

– rendere accessibile il trasporto pubblico per gli studenti con disabilità sin dall’inizio dell’anno scolastico

Non confondere l’attività formativa scolastica, con altre attività, che possono arricchirla e stimolarla, ma non sostituirla; essa deve essere l’espressione di un progetto educativo elaborato dalla comunità scolastica. I patti territoriali di comunità e le alleanze con il territorio dovranno prevedere che ogni progetto venga promosso dalla scuola, proprio per rispettare le sue prerogative costituzionali senza alcuna possibilità di deroga e di delega.
In quest’ottica, istituire – se necessario – sin dal I anno della scuola secondaria di II grado percorsi di formazione volti ad inserire, laddove possibile per competenze acquisite, gli studenti con disabilità nel mondo del lavoro allo scopo di costruire percorsi di autonomia e di inclusione nella società.
Modificare il sistema di valutazione. L’impianto di una valutazione quantitativa e selettiva è un fattore determinante nella cristallizzazione delle diseguaglianze in seno alla scuola perché classifica e non favorisce alcuna reale consapevolezza. Inoltre, la competitività data dal sistema numerico influisce, come fattore di stress, nell’emersione del forte disagio che accompagna i percorsi scolastici di molti alunni e alunne. Per questo pensiamo sia fondamentale che una scuola realmente democratica, universalistica e inclusiva, si apra a un dibattito serio sulla valutazione numerica, anche al di là della scuola primaria.
Rivedere l’orientamento scolastico; così come realizzato attualmente, attraverso dispositivi come i forum e le fiere, si presenta come un vero e proprio mercato in cui le scuole si trovano a concorrere disperatamente per garantire un numero di iscritti che non pregiudichi i posti in organico e quindi il mantenimento delle classi e delle cattedre; rimettendo, invece, al centro, le reali aspirazioni degli alunni e delle alunne.
Far fronte a cambiamenti, come quelli determinati dall’era digitale, che stravolgono completamente il rapporto di tutti e di tutte con la conoscenza e con le relazioni umane. Per questo diffondere una pedagogia critica dell’era digitale; la digitalizzazione deve essere un processo serio e profondo da non affrontare con interventi propagandistici o estemporanei, come l’introduzione burocratica e posticcia delle cosiddette “competenze non cognitive”, così com’è accaduto con l’inserimento dell’Educazione civica.
A nostro avviso è imperativo sottrarre la discussione sui processi formativi – decisiva per il modello di conoscenza e di umanità delle generazioni presenti e future – alla strumentale corsa propagandistica di politiche governative sempre più subalterne e sempre più ridotte a pura ricerca di un facile consenso.

Educazione sessuale e affettiva
Che preveda più cicli di quattro incontri ciascuno durante tutto il percorso della scuola dell’obbligo a partire dall’ultimo anno della scuola primaria, poi con cadenza biennale dal primo anno della scuola secondaria inferiore

Che non si limiti agli aspetti di salute riproduttiva e contraccezione ma si focalizzi, con strumenti e contenuti adattati alle diverse fasce d’età, sul formare preadolescenti e adolescenti a vivere la propria sessualità, e piacere e l’affettività in maniera sana, consapevole, responsabile, rispettosa e senza pregiudizi

Che sia laica, libera da condizionamenti di matrice religiosa e che aiuti le e gli studenti a riconoscere e riflettere criticamente sugli stereotipi sessuali e di genere

Che sia erogata da esperte ed esperti, coinvolgendo attivamente le i docenti nella progettazione

Università e Ricerca

Riaffermare un ruolo sociale per l’università e la ricerca pubbliche.

È necessario, e possibile, riaprire una battaglia politica sul ruolo sociale della conoscenza, per un accesso libero e gratuito al sapere, per un sistema della ricerca aperto e socialmente responsabile; occorre ribaltare la logica classista dell’accesso all’Università, superare la precarizzazione della ricerca e la sua subalternità al mercato e alla logica produttivistica.

L’Università è vissuta sempre meno come opportunità di emancipazione sociale e personale, la sua difesa non è percepita come “interesse condiviso” da quella parte della società che se ne sente esclusa.

Anche sulla formazione, il richiamo alla funzione di produrre un sapere critico, non schiacciato sulle domande del mercato, non risponde solo a un principio di cittadinanza, a un obiettivo di autonomia critica, ma si fonda anche sul fatto che una formazione subordinata alle domande del mercato è immediatamente esposta alla marginalità e all’obsolescenza, in una stagione di drammatiche innovazioni tecnologiche, sociali e produttive.

Eppure si continua a riproporre l’idea (di cui anche il 3+2 è figlio) che il nodo del rapporto col mondo del lavoro sia rafforzare percorsi professionalizzanti ed evitare il cosiddetto mismatch: la rappresentazione che da anni viene proposta è che esista un mercato del lavoro che i giovani non incontrano. Mentre esiste una carenza di lavoro effettiva e c’è una domanda delle imprese di figure sotto qualificate da “addestrare”. La frammentazione dell’offerta formativa, la sua riduzione a “prodotto” da offrire a “clienti”, inseguendo la competizione tra atenei, ha impoverito il percorso culturale e ridotto le possibilità di crescita delle capacità critiche e di rapporto autonomo con la realtà; ma impone anche gli studenti una logica prestazionale, senza garantire diritti e, spesso, qualità formativa. La ricerca e l’alta formazione pubbliche possono avere una autonomia, intesa come capacità proattiva come lettura critica delle domande finalizzata al bene pubblico e alla valorizzazione delle conoscenze. Uno dei capitalismi più assistiti del mondo non può essere assunto come stella polare delle esigenze formative e di ricerca, né degli indirizzi dell’innovazione; esso deve essere indirizzato dal potere pubblico, non indirizzarlo. E, naturalmente, non è per noi l’orizzonte della storia.

Le proposte che avanziamo vanno, dunque, nella logica di un ribaltamento della cultura neoliberista che comprime il diritto al sapere, le potenzialità liberatorie e di emancipazione della conoscenza, per ciascun individuo e per la società intera; cioè per i bisogni e i diritti di tutte e tutti.

Rilanciare l’investimento in ricerca, formazione, cultura, orientare questo investimento all’utilità sociale. Mentre si è scelto, irresponsabilmente, l’aumento delle spese militari fino al 2% del PIL, in nome di una richiesta di impegno della NATO, è bene ricordare l’obiettivo sancito nel Trattato Europeo di Lisbona che impegnava tutti gli stati membri a raggiungere il 3% di investimenti in formazione e ricerca. L’Europa aveva scelto di essere la società più dinamica al mondo, basata sulla conoscenza; ma le politiche neoliberiste e di austerity hanno tagliato risorse alla scuola, all’università e alla ricerca. Quell’impegno, scritto nei trattati, non è mai stato rispettato. Va riaperta una stagione di investimento pubblico in ricerca e alta formazione capace di individuare priorità e finalità.
Riaprire l’accesso di massa all’università. Il nostro Paese è agli ultimi posti in Europa per numero di laureati. Le tasse universitarie sono progressivamente cresciute, escludendo sempre più fasce sociali svantaggiate, e con esse sono cresciuti i costi di permanenza in tutte le città universitarie, grandi e piccole. La formazione universitaria, mentre si sproloquia sul merito, è tornata ad essere un privilegio per ricchi; si delinea anche il rischio che la didattica a distanza, strumento aggiuntivo e integrativo fondamentale per aumentare l’accessibilità ai corsi e alle lezioni. diventi, in alcuni atenei o come modello generale, la certificazione delle differenze sociali: esperienza universitaria per i poveri, dequalificata e a distanza, università per i ricchi, d’eccellenza e in presenza.
Contro l’aumento delle tasse e la retorica paternalista dell’aiuto ai meritevoli, noi proponiamo la gratuità della formazione dall’asilo all’università: la formazione è un diritto e una condizione di sviluppo, non è un costo. Oltre la gratuità dell’iscrizione, servono risorse per rendere effettivo il diritto allo studio, servizi, accessibilità, accompagnamento, alloggi e borse di studio. Il problema degli alloggi non può essere delegato a logiche di speculazione e di sfruttamento del “sistema fuorisede”, ma deve essere strutturalmente affrontato, insieme a un programma di finanziamento allo studio, in modo da permettere la libertà di scelta di corso, ateneo e città senza che questa sia subordinata alle condizioni economiche di partenza. Serve orientare, concretamente e col coinvolgimento di tutte le categorie, negli atenei, i fondi del PNRR (e quelli liberati da questo).
Supportare il percorso di inclusione degli studenti con disabilità attraverso l’abbattimento delle barriere architettoniche e sensoriali, l’acquisto di ausili didattici e di strumentazioni nonché la predisposizione di adeguati piani e modalità di partecipazione e di lavoro e la fornitura laddove necessario di traduttori LIS e BRAILLE.
Incrementare il numero di tutor e di ore assegnate agli studenti con disabilità per fornire un adeguato supporto durante il loro percorso accademico.
Costruire un governo democratico della ricerca pubblica.
La gestione dei Dipartimenti di Eccellenza e dei fondi premiali nasconde un sistema per cui la norma è il sottofinanziamento di Enti e Atenei. Questi devono competere secondo descrittori fortemente influenzabili che premiano consistentemente alcuni per lasciare a fondo graduatoria altri, aumentando il divario tra atenei “virtuosi” e non. La valutazione dei singoli e delle sedi, la retorica del merito e dell’eccellenza, si sono trasformati in strumenti di accrescimento delle disuguaglianze territoriali e di rendite di posizione.
Occorre ripensare i criteri di valutazione dei singoli e delle sedi: l’investimento delle risorse non può essere guidato da una logica di premio e punizione delle sedi in base alla valutazione. Al contrario, valutazione e risorse devono perseguire il riequilibrio dell’offerta didattica e delle capacità di ricerca. Non servono “campioni nazionali” di eccellenza; va garantita e preservata la qualità diffusa del sistema con strumenti di promozione di reti e coordinamento di risorse e competenze esistenti, su progetti strategici condivisi. L’obiettivo deve essere favorire una crescita di sistema su scala nazionale, superando la preservazione degli equilibri di potere e mettendo in discussione la “naturalità” di un sistema che seleziona ed esclude per genere e che ancora disconosce la fondatezza della critica prodotta dal femminismo ai saperi e ai modelli di relazione sociali.
Serve partecipazione nel delineare il PNRR, nel definire i progetti, nell’esecuzione. Serve maggiore coerenza rispetto alle grandi sfide (transizione ecologica, economia circolare, lotta agli squilibri, salute pubblica) ponendo al centro la disponibilità, la diffusione e l’utilizzo dei saperi. Un intervento di queste dimensioni e questa complessità non può ridursi all’”acquisto” di tecnologia o alla realizzazione di infrastrutture: è urgente affermare un governo sociale dell’innovazione capace di coglierne ricadute, modelli alternativi, implicazioni sociali e ambientali. Se è vero, inoltre, che il PNRR è finalizzato a investimenti a termine, questa massa di risorse può, però, affiancarsi a una programmazione che tenga conto delle risorse che si liberano e possono essere investite. Le risorse che arriveranno e saranno usate spesso per adeguamenti infrastrutturali non possono riproporre le università come parte di operazioni urbanistiche che hanno cementificato le nostre città senza aumentarne la qualità sociale.
Va riaffermato il carattere unitario del sistema di alta formazione, l’universalità del diritto allo studio e la parità di opportunità a prescindere dall’ateneo in cui è stata conseguita la laurea. Va respinto l’attacco al valore legale del titolo di studio; attacco che si è riproposto palesemente col decreto del governo Draghi, in merito alla riforma delle classi di laurea (uno degli atti collaterali alla “Missione 4” del PNRR), su cui persino il C.U.N. ha espresso parere negativo. Va incentivata la sperimentazione didattica finalizzata ad arricchire l’offerta formativa. Va ripensata un’organizzazione della didattica oltre un modello che ha rescisso il legame con la ricerca, sposato un approccio quantitativo e nozionistico che svilisce il ruolo di chi insegna e crea condizioni di stress e immotivati sentimenti di inadeguatezza in migliaia di studenti e studentesse. Va riaffermata la didattica come dialogo, interrogazione reciproca, confronto, relazione con l’attività di ricerca e non solo come acquisizione di contenuti per fruitori passivi. Va respinta – vogliamo dirlo con ulteriore chiarezza – la tentazione di utilizzare la didattica a distanza come pretesto per non rimuovere gli ostacoli di ordine economico e materiale alla libera scelta di frequentare l’università in presenza e, più in generale, di vivere l’esperienza universitaria nel suo complesso.
È necessario aprire, in tutte le componenti del mondo universitario, una riflessione e una verifica sul 3+2 e sul sistema dei crediti; sulla reale utilità e valenza formativa di questa struttura del curricolo. Discussione che, necessariamente, deve avere anche una proiezione europea e la cui finalità deve’essere quella della crescita nella qualità culturale e scientifica della formazione universitaria, puntando a superare la frammentazione dei percorsi formativi, e la parcellizzazione degli specialismi. È necessario porre fine alla sindrome del factotum: bisogna riconsiderare la distribuzione degli incarichi amministrativi, contabili e finanziari che ricadono sui docenti e ricercatori sottraendo tempo all’insegnamento, alla ricerca e alla didattica. Come in altri paesi europei, è fondamentale decentralizzare i ruoli amministrativi e inserire figure tecniche e gestionali in maniera capillare e democratica, non centralistica, permettendo un’ottimizzazione delle risorse e la valorizzazione dei ruoli.
Va chiusa la stagione della precarizzazione della ricerca. Non solo perché ha pesato sulla vita di moltissime e moltissimi giovani, ma perché precarizzazione vuol dire meno autonomia e libertà, meno capacità di innovare approcci, metodi e linguaggi, perdita di competenze. La condizione di eterna precarietà di dottorandi e ricercatori ne limita l’autonomia, mina le loro condizioni di vita e impoverisce sistematicamente ricerca e formazione. L’ideologia della precarietà che ha destrutturato molte conquiste nel mondo del lavoro, deve essere radicalmente ribaltata: serve garantire stabilità e condizioni di vita dignitose a coloro cui si affida la ricerca pubblica e, quindi, il futuro tessuto culturale, scientifico, tecnologico del Paese.
La recente riforma del sistema universitario approvata nel PNRR2 a luglio 2022, impone giustamente l’incremento degli stupendi post laurea e un consolidamento dei contratti post dottorato, stabilizzando la figura del post doc con un contratto di ricerca e superando il sistema di RTDa-RTDb con la nuova figura RTT (ricercatore tenure-track). Il grave errore è che il decreto non accompagna questa riforma con fondi strutturali e anzi impone lo stesso tetto di spesa del triennio precedente, determinando de-facto un calo delle posizioni disponibili.
Ciò non dimostra una presa di coscienza sul valore dell’istruzione superiore, ma genera un ulteriore collo di bottiglia andando sempre più a privare i giovani laureati di un futuro accademico.
Questa situazione è ancora più grave se consideriamo quanto la cultura e la scienza siano le due basi fondanti dello sviluppo sostenibile, della giustizia sociale, della transizione ecologica.
Per superare un’organizzazione gerarchica delle università e per contrastarne la contrazione e precarizzazione e per riaffermare un accesso libero al sapere per un sistema della ricerca aperto, va ridefinito, lo sblocco del turn over e un programma pluriennale di reclutamento. Servono dunque finanziamenti strutturali, sia per adempiere finalmente all’obiettivo del 3% di PIL investito in istruzione e ricerca, sia per restituire dignità e senso alla carriera universitaria, riducendo la nota “fuga dei cervelli” e conseguente emorragia di giovani laureati verso altri Paesi, e invertendo anzi la direzione.
Recuperare una funzione sociale della ricerca a partire dalle grandi sfide che la crisi ci pone. Il rapporto con la società non deve significare subordinazione agli interessi delle imprese, e la libertà e l’autonomia della ricerca non si ottengono con una chiusura autoreferenziale. La “terza missione”, il contributo, cioè allo sviluppo sociale e civile del Paese, deve essere strettamente intrecciata alla formazione e alla ricerca e deve fondarsi sull’autonomia e la capacità di essere in relazione con la società. Questo è ottenibile solo con carriere non frammentate dal ricatto dei pochi fondi e di posizioni precarie, ma rinforzando il finanziamento dei gruppi di ricerca e dei nuovi reclutamenti, in modo da garantirne la libertà e indipendenza scientifica ed evitare obbligati apparentamenti e affiliazioni.
Riprendendo il positivo lavoro svolto nelle precedenti legislature – e nel, pur breve, periodo del Governo Conte 2 – occorre rilanciare l’azione di riforma dell’Alta Formazione Musicale e Artistica, superandone la marginalizzazione e la trascurata indifferenza; ma anche procedere ad una riorganizzazione e ad un forte impulso, in particolare, della formazione musicale, fin dalla scuola di base.