Referendum, il piazzale Loreto di Renzi
Che il referendum abbia decretato una catastrofica sconfitta per Matteo Renzi è chiaro, meno lo è la risposta alla domanda: "Se lui ha perso, chi ha vinto?"
Di Gianni Pardo
È dubbio che, nel diluvio di commenti al risultato del referendum, valga la pena di aggiungerne un altro. Ma su un punto non s’è fatta sufficiente chiarezza. Se sul fatto che lo scrutinio abbia decretato una catastrofica sconfitta per Matteo Renzi tutti sono d’accordo, meno chiara sembra la risposta alla domanda: “Se lui ha perso, chi ha vinto?”
Si potrebbe pensare che abbia vinto chi ha fatto propaganda per il “no”, ma non è vero. Il “sì” era a favore della riforma e di Renzi stesso, se non più umilmente per la stabilità. Il “no” certo si opponeva, ma non per questo proponeva qualcosa. E non avrebbe potuto farlo, dal momento che lo schieramento era composito al punto che, finita questa momentanea unità d’intenti distruttiva, da domani gli avversari saranno irriducibili come prima. Così la domanda rimane inevasa.
E tuttavia qualcosa è evidente. L’enorme affluenza alle urne, la nettezza del risultato, il sentimento di sollievo che percorre la nazione, confermano ciò che Renzi ha detto di passaggio e che risulta essenziale: “Non credevo mi odiassero tanto”.
In realtà non si è trattato di odio, dopo tutto l’uomo è bello e simpatico. Si è trattato di insofferenza nei confronti della sua arroganza, del suo assurdo ottimismo, della quantità e sfrontatezza delle sue bugie. In sintesi del suo tentativo di costruire con le parole un’Italia vincente e immaginaria, cui gli italiani erano più o meno gentilmente invitati a credere. Invece molti – bene a conoscenza della realtà, perché ne soffrivano personalmente i morsi – alla fine hanno avuto la reazione feroce di chi si è sentito irriso da una costruzione fantastica che si vorrebbe far prevalere sulla realtà. Un po’ come, nel 1942, gli italiani ironizzavano amaramente sulla propaganda di regime che continuava a proclamare: “Vincere, e vinceremo”, mentre si vedeva benissimo che l’Asse stava inesorabilmente perdendo una guerra tutt’altro che “Lampo”. Il buon senso, ecco chi ha vinto la campagna del referendum. Un buon senso esasperato, divenuto acre e mordace, perché provocato fino all’inverosimile dall’invadenza parolaia, per quanto abile, di un premier in palese adorazione di sé stesso. E alla disperata ricerca di adoratori.
Quante volte si è detto che il peccato mortale di Renzi è stato l’eccesso? E se questo peccato è stato percepito subito da alcuni; se per molto tempo è sembrato che gli italiani – accecati dalla necessità di avere una speranza purchessia – aprissero al giovane Primo Ministro un credito enorme, per incoraggiarlo a compiere qualche miracolo, quando il miracolo ha tardato, quando i numeri e la realtà sono rimasti crudelmente negativi, anche la grande massa si è stancata di questo tonitruante fenomeno sonoro. Ed ecco che – malgrado una suggestiva e implacabile campagna elettorale – è corsa in massa alle urne per scacciare l’insolente. Forse – come pensa lui – Renzi non ha meritato un rigetto così implacabile. È soltanto un uomo giovane, ubriacato dal successo e dal fascino delle sue stesse parole. Forse ha veramente creduto nel suo destino di gloria, anche – perché no? - come salvatore del Paese. E così ha perduto il senso della misura, se mai l’aveva avuto.
Ma non è una caratteristica dei giovani, questa? Quale anziano ragionevole si darebbe al free climbing, alle traversate degli oceani in solitario, alle corse a trecento chilometri l’ora, mettendo a rischio la propria vita per qualcosa di futile? E invece i giovani lo fanno. Come Renzi, hanno poca coscienza del limite e credono di supplire con la volontà alle loro insufficienze o agli azzardi dell’impresa. Non raramente essi hanno la iattanza provocatoria di geni del guantone come Cassius Clay o Mike Tyson, o quella della parola che ha avuto Renzi. Ma farsi troppi nemici è un errore per chiunque. Cassius Clay ha avuto amici sinceri, in tutti il mondo, soltanto quando lo abbiamo visto, divenuto l’ombra di sé stesso, tremare tutt’intero col morbo di Parkinson. E invece ci deve pure essere uno spazio, fra l’ostilità e la pietà. Da oggi l’Italia è tornata alla realtà. Non c’è nessun capo carismatico, nessuna soluzione salvifica, nessun ottimismo ufficiale. Siamo nella melassa da almeno otto anni, e non sappiamo come uscirne. Speriamo di farcela, speriamo di sopravvivere, ma che nessuno intoni canti di vittoria: disturberebbe soltanto la manovra, per quel po’ che possiamo ancora manovrare.
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