Referendum, parla Carlo Fusaro: le menzogne del No e le ragioni del Sì
Carlo Fusaro, giurista e professore di Diritto pubblico comparato all’Università di Firenze, affianca spesso Maria Elena Boschi nei dibattiti per il Sì al Referendum Costituzionale del 4 dicembre. Sull’opportunità di una revisione della Carta del ’48 ha scritto un libro, Aggiornare la Costituzione. Storia e ragioni di una Riforma, firmato a quattro mani con lo storico Guido Crainz. Ad Affari Italiani spiega quelle che ritiene le contraddizioni e le falsità del fronte del No («Le pinocchiate») e i motivi per cui, invece, si dovrebbe votare Sì.
Il fronte del No insiste sull’illegittimità di un Parlamento eletto con il Porcellum, sistema contestato dalla Corte Costituzionale su due punti: premio di maggioranza senza soglia e liste bloccate. Dunque, si mette in dubbio la possibilità di riformare la Costituzione. Per lei non è un argomento valido?
«Si continua a far confusione tra legittimazione politica e legittimità giuridica. La Corte ha confermato una legittimità giuridica. D’altra parte, se dovevano esserci dei paletti all’attuale Parlamento si sarebbe dovuto indicarli chiaramente. Cosa che non è stata fatta. Credo il Parlamento abbia operato regolarmente, anche con elezioni di giudici della stessa Corte Costituzionale. Da studioso posso dire che, magari, quella sentenza doveva essere meno contradditoria, più precisa. Però, affermare che oggi in Italia ci sia un Parlamento illegittimo mi sembra privo di senso: in teoria, allora, dovremmo cancellare quanto fatto dalle legislature dal 2006 in poi? Non mi pare serio».
Ma quella sentenza, che certo non poteva azzerare le Camere, e anzi le salvaguardava in quanto «organi necessari ed indefettibili», non indicava un limite nel principio di continuità dello Stato? Limite per il quale una revisione costituzionale può essere eccessiva.
«Non ritengo che la continuità dello Stato possa tradursi in un limite. Politicamente può esserci una valutazione diversa, certo. Perché, sostanzialmente, c’è una maggioranza in conseguenza di un legge elettorale dichiarata illegittima. La Corte si è espressa negativamente in due punti. Il primo, dove non si prevedeva un rapporto immediato tra voto dell’elettore e singolo eletto. Il secondo, laddove si assegnava un premio di maggioranza senza una minima soglia. Però la Corte non dice quale avrebbe dovuto essere questa soglia. Dice solo che non c’era. Quindi chiariamo: noi non sappiamo se, per esempio, un quorum del 25% sarebbe stato valido per la Corte. Né, in ogni caso, ripeto, il Parlamento è stato dichiarato illegittimo. E sbaglia chi si trascina dietro quest’argomento. Tutti gli atti già compiuti rimanevano validi e, di lì in poi, c’è stata una valutazione politica nel decidere cosa poter fare e cosa non poter fare».
In ogni caso, nel Paese – in un clima saturo di polemiche - ci si divide sulla Costituzione, che dovrebbe invece unire. Anche per questo in molti voteranno No.
«C’è dietro il rifiuto dell’idea che una democrazia si governa con i voti a maggioranza. I costituenti, che erano saggi, e che non possiamo citare solo quando ci fa comodo, l’avevano previsto: con l’articolo 138. Le leggi di revisione costituzionale si approvano con la maggioranza assoluta, purché questa si esprima nella seconda votazione a distanza di almeno tre mesi; due volte quindi, in ciascun ramo del Parlamento. Se questo accade è possibile chiedere il Referendum. Uno strumento che, per sua natura, è divisivo. C’è chi dice Sì e chi No. Non ha senso stupirsi».
Lei sull’Unità cura una rubrica, «I Pinocchi del No». Settis, Ingoria, Belpietro, il Presidente dell’Anpi Smuraglia: in tanti ci sono finiti dentro. Quali crede siano i tre errori più comuni del fronte del No?
«La rubrica punta il dito su cose o inventate o molto forzate. Le “pinocchiate” del fronte del No sono tante, aumentano di giorno in giorno. Dovessi dirne tre, metterei: quella della deriva autoritaria, del tutto falsa e pretestuosa; poi il fatto che venga stravolta la procedura per l’elezione del Presidente della Repubblica; e infine l’ormai celebre articolo 70, che diventerebbe molto più lungo risultando - così si dice - incomprensibile. Sull’elezione del Presidente dire che se lo eleggerà la maggioranza significa non saper far di conto: cioè prospettare votazioni a cui non si presentino improvvisamente 2-300 persone, quando ha sempre partecipato quasi il 99% dei deputati. Su l'ultimo punto, poi, è vero il contrario: l’articolo 70 è chiarissimo. E’ lungo proprio per evitare ogni ambiguità. Ci sono due procedimenti, e alcune varianti. Nessun pasticcio. Anche la Costituzione attuale prevede delle varianti. Per chi la conosce questa è la normalità».
Riguardo le leggi, appunto: ce ne sono troppe. In media, dal ‘97 al 2013 ne sono state approvate circa 120 all’anno. Un numero superiore alle 91 della Francia, o alle 42 della Gran Bretagna. Nella sola XVII Legislatura (dal 2013 a oggi) siamo a quota 243: una ogni 5 giorni. Detto questo, come può la riforma semplificare?
«Togliere di mezzo istituzioni che non servono: tipo il Cnel. E facendo sì che per il 95% delle leggi deciderà la Camera, con un Senato, considerevolmente ridotto, che tutt’al più interferirà per non più di 45 giorni, cioè per un tempo estremamente breve. La tendenza delle troppe leggi è un altro discorso; e non riguarda necessariamente la riforma, né è materia prettamente costituzionale. Ci vorrebbe una delegificazione. Il problema è che ci sono molte leggi su temi delicati e controversi sui quali il sistema si dimostra inadeguato. E si va spesso in stallo. Questo perché con più rami del Parlamento si offrono varie occasioni a lobbies o gruppi di un certo potere di interferire. Nel linguaggio politologico sono i cosiddetti Gatekeeper, coloro che hanno il controllo del “cancello”, della porta: si deve pagare qualcosa in termini di interessi per passare, o, in questo caso, legiferare. Pensiamo, per esempio, a una legge già approvata alla Camera e per cui poi si è costretti a far concessioni perché lo sia anche in Senato. Più si necessità di consenso e più si dilata questo fattore. Ecco come la riforma si semplifica».
Il prof. Zagrebelsky, però, e non solo lui in realtà, teme una deriva oligarchica a danno del sistema democratico.
«Una forma di Governo Parlamentare, come la nostra, può funzionare solo se c’è una stretta collaborazione tra Governo e Parlamento. A seconda dei contesti, e in generale quasi dappertutto, si deve sacrificare un pezzo di rappresentanza per avere un Governo. Le elezioni devono trovare un equilibrio in questo senso: tra funzione rappresentativa e governativa. Zagrebelsky sembra non riconoscere la necessità della funzione di Governo, o almeno la trascura. Considera le assemblee politiche delle arene nelle quali le diverse parti si confrontano fino a trovare un accordo finale; senza dare troppo peso al fatto che le decisioni devono essere prese entro tempi certi. E’ una visione onirica la sua. Nelle democrazie, per lo più, lo dicono i numeri, governa la maggiore minoranza: questo Zagrebelsky sembra rifiutarlo».
Si parla poco dell’aumento delle firme da presentare per le leggi di iniziativa popolare: da 50mila a 150mila. Per la verità è un istituto legislativo raramente andato in porto: dal 1979, su 260 proposte, solo 3 sono diventate legge. 137 non sono state neanche mai discusse. La riforma, infatti, introduce la garanzia che almeno saranno prese in considerazione. Ma perché triplicare il numero necessario?
«Proprio perché si vuole garantire una risposta, positiva o negativa, entro un certo periodo. Si vuole garantire, cioè, che una proposta entri nel calendario dei lavori. Dal ’48 a oggi la popolazione è raddoppiata, e i metodi di organizzazione sono cambiati. 50mila firme si trovano molto facilmente. Così si cerca di evitare che il Parlamento sia inondato da proposte. Come fare, altrimenti, a impedire che arrivi un numero indefinito di leggi? Si trasformerebbe una democrazia rappresentativa in una semi-diretta. Intendiamoci: si possono avere pareri favorevoli in merito. Con la riforma, però, si vuole dire: i cittadini possono imporre un tema sul quale il Parlamento deve pronunciarsi, ma solo se c’è un consenso sufficientemente radicato nella società».
Si toglie anche la possibilità di votare il nuovo Senato. E poi, altra obiezione del No: come potranno i Senatori fare, nel contempo, i sindaci e i consiglieri regionali?
«Contrariamente a quanto si contrabbanda, c’è un disegno coerente. Se si vuole fare del Senato un organo di rappresentanza delle istituzioni territoriali, proprio quelle istituzioni (regionali e comunali) debbono essere rappresentate, e non i cittadini. I Senatori, infatti, eletti indirettamente, non daranno la fiducia al Governo. Col voto popolare diretto si creerebbe un’incoerenza concettuale. Oltre a rischiare, in continuità col passato, che il vecchio Senato mangi il nuovo. L’obiezione del doppio lavoro è invece assurda. Si fonda per il 50% sull’incapacità di immaginare il nuovo Senato. Si lavorerà per sessioni concentrate, con internet, anche a distanza. Sarà un Senato che si riunirà per questioni concrete. Non si dovrà pronunciare con frequenza, non ce se sarà bisogno. Di contro, i consiglieri regionali non mi sembra affatto siano impegnati, fisicamente, tutti i giorni nei rispettivi consigli. Anzi. In Germania il Bundesrat, che rappresenta i Governi, si riunisce un giorno al mese per 11 mesi. Perché? Non sono pazzi, c’è un lavoro già istruito e poi si discute».
Lei ha scritto di un «atteggiamento ansiogeno, drammatizzante, spesso fuori le righe» da parte del fronte del No, (Unità, 11 ottobre). Non faceva lo stesso il Governo fino a pochi mesi fa? Inclusa la personalizzazione di Renzi.
«No, non credo. Questa legislatura è nata per fare le riforme; lo abbiamo detto a tutto il mondo del resto. Non c’è dubbio che l’esito del Referendum sia decisivo per il cambiamento. E’ un passaggio fondamentale. Bisogna ricordare che fino al momento in cui Renzi non ha deciso di metterci la faccia, l’idea era largamente condivisa. Credeva di interpretare la volontà del 70% dei cittadini. E’ stato un errore. Ma posso assicurare che se vincerà il No, ne sono convinto, si dimetterà. Spero però gli italiani si esprimano sul merito e non sugli slogan. La storia ci insegna che stiamo aspettando da più di 30 anni».