“Tornare dal bosco”: un romanzo psicologico nella dozzina dello Strega

Proseguono le recensioni dei titoli nella dozzina del Premio Strega 2023. “Tornare dal Bosco” è il romanzo di Maddalena Vaglio Tanet edito da Marsilio

di Chiara Giacobelli
Libri & Editori

Una bambina morta suicida nelle acque di un gelido fiume. Una maestra schiacciata dal senso di colpa che scompare nel bosco e si chiude nella propria interiorità. Un ragazzino pronto a salvarla, custodendo però il suo segreto. Tutto questo e molto altro è Tornare dal bosco di Maddalena Vaglio Tanet.

Può accadere che un romanzo d’esordio arrivi semifinalista al Premio Strega: è raro, ma è ciò che è successo a Maddalena Vaglio Tanet, che con Marsilio ha pubblicato Tornare dal bosco. Già successo letterario, il libro è entrato nella dozzina dello Strega e lei, autrice tra le più giovani, ha commentato così la notizia: “Molti dei colleghi in semifinale sono scrittori che leggo e ammiro da anni, ad esempio Maria Grazia Calandrone o Romana Petri. Vivo quindi questa esperienza con un certo senso di straniamento, che tra l’altro è un atteggiamento molto prezioso e fecondo, specialmente per chi scrive, quindi lo accolgo pienamente. Sono davvero felice e grata e procedo con una certa lievità”. Il romanzo non è poi riuscito a classificarsi nella cinquina, ma ha raggiunto ugualmente un ottimo risultato e vale di certo la pena parlarne, seguendo il progetto già iniziato da Affaritaliani.it di recensire tutti i libri della dozzina, con tanto di virgolettati e interviste agli autori.


 

Dei dodici scelti, Tornare dal bosco è senza dubbio quello che più si discosta dalle tematiche e dagli stili presenti in semifinale. D’altra parte, si tratta di un libro particolare e unico nel panorama della narrativa italiana contemporanea, in quanto riesce a intrecciare un fondo di verità – non a caso si parte da un fatto di cronaca – a un senso di mistero che genera suspense e infine a molta introspezione. La storia raccontata non si concentra sulla sparizione della maestra Silvia a seguito del suicidio di una sua alunna in termini di ricerche, colpi di scena, spostamenti e non detti; il cuore del contenuto si trova da un’altra parte, ovvero nelle motivazioni che spingono l’insegnante a rifugiarsi nel bosco e lì a rimanere fino a quando non sarà pronta per tornare nella comunità. Sola, sudicia, affamata, infreddolita e stanca, la donna sarebbe probabilmente morta in un capanno abbandonato se non fosse stato per Martino, un bambino trasferitosi di recente da Torino che non riesce a trovare il proprio posto in quella realtà così diversa, ma scopre un nuovo senso – e in parte anche il brivido dell’avventura – nelle visite segrete alla maestra. Non la trova in maniera casuale, la va a cercare con l’intenzione di elevare la propria posizione di fronte al resto della classe, che non di rado lo bullizza; di certo, però, non pensa davvero di imbattersi in lei quando esce di casa e si dirige nel fitto della vegetazione. Invece eccola là, più viva che morta, appena in grado di parlare. Le uniche parole che gli dice sono: “Non dirlo a nessuno”.

A partire da questo primo contatto tra il bambino e la maestra, Tornare dal bosco, edito da Marsilio, diventa un racconto introspettivo non soltanto dei due protagonisti, ma anche dei personaggi che ruotano loro attorno: il cugino di Silvia, Alfonso, preoccupato come il resto della famiglia per la sua scomparsa; i compagni di classe di Martino e in particolare Giulia, per cui prova una cotta infantile; la famiglia del bambino, all’apparenza perfetta ma in realtà piena di crepe; le donne vedove, zitelle o che in qualche modo non hanno seguito l’ordine precostituito e per questo vengono etichettate, giudicate, fraintese. La storia procede con un ritmo lento, poiché di fatto sono pochi i cambi di scena e le azioni vere e proprie, perciò – nonostante il tema tendente al noir – non è al thriller che bisogna guardare quando si pensa a questo romanzo. Ciò che interessa all’autrice è il vissuto interiore di ciascuno, la sua storia personale e la capacità di metabolizzarla, comprenderla, accettarla per perdonarsi e quindi per tornare a vivere. In questo contesto, la natura costituisce un luogo di rifugio, una pausa dal mondo, una dimensione parallela dove in fondo ognuno di noi vorrebbe svanire per un po’ quando la quotidianità diventa troppo pesante da sopportare.

Affaritaliani.it ha intervistato Maddalena Vaglio Tanet a proposito della genesi di Tornare dal bosco e lei ci ha fornito un racconto ampio, interessante e dettagliato, che riportiamo qui.


 

“Il romanzo reinventa e trasfigura una vicenda a cui penso da quando ero ragazzina e che all’epoca mi è arrivata in maniera frammentaria e obliqua, attraverso allusioni, informazioni sparse, scampoli di conversazioni. Di questa storia delicata, dolorosa, non si parlava mai apertamente.La cugina di mio nonno, maestra, non sposata e senza figli, era parte integrante della famiglia. Viveva accanto ai miei nonni in una casa comunicante e pranzava e cenava con loro. A quel tempo era già in pensione, amatissima da generazioni di ex allievi. Era piuttosto diversa dalle altre donne che mi hanno cresciuta: mia madre, mia nonna, la mia bisnonna, definite dal loro essere appunto madri e sposate o divorziate o vedove. Lei invece era forse più sola, ma anche ai miei occhi più libera. Non cucinava, non puliva la casa e non faceva niente di quello che ci si aspettava da una signora. Aveva un carattere svagato e distratto e sovente si perdeva nei suoi pensieri, un tratto in comune che ci rendeva complici.

D’estate passavo mesi interi a casa dei nonni e quindi anche della maestra. Ero una bambina circondata da persone anziane, in un piccolo paese tra i boschi, e passavo l’estate leggendo moltissimo, leggendo praticamente tutto il giorno: questo lei l’ha sempre protetto e difeso. A me colpiva il fatto che fosse orfana e avesse passato gli anni della sua tarda infanzia e la sua adolescenza in collegio dalle suore. A volte parlava del collegio, ci era stata molto male, ma aveva anche stretto grandi amicizie. La sua mi sembrava già una storia da romanzo, me la figuravo come una specie di Jane Eyre, Oliver Twist, Anna dai capelli rossi.

A un certo punto, non saprei dire esattamente quando, ho capito che nella vita adulta della maestra era successo qualcosa che l’aveva segnata. Alla fine degli anni Sessanta era scomparsa per giorni, quindi era tornata a casa mezza morta di fame e di sete, bagnata fradicia di pioggia, sporchissima. Mia nonna le aveva fatto un bagno nell’acqua calda: aveva dovuto cambiare l’acqua nella vasca tre volte. Dov’era stata, e perché se ne era andata? Non volevano dirmelo. Era una storia tragica.Più avanti ho saputo: una sua allieva, una ragazzina quasi dodicenne, si era uccisa gettandosi nel torrente dopo un litigio con i genitori. La maestra si sentiva responsabile perché aveva comunicato lei alla famiglia che quel giorno la bambina non era andata a scuola. Si sentiva in colpa. Il dolore l’aveva travolta. A quel tempo avevo più o meno l’età della ragazzina e la storia mi aveva molto turbata.

La maestra non ne ha mai parlato con me e io non ho mai osato chiedere. Dopo la sua morte, mi sono resa conto che la sua storia continuava a interpellarmi, a chiamarmi. Ho trovato gli articoli di giornale, risalenti a più di 50 anni fa, che avevano riportato i fatti. Ho parlato con chi conservava qualche ricordo. Poi però mi sono presa la libertà di costruire un romanzo di finzione. Della storia mi interessava il nucleo psicologico, gli snodi: come si sopravvive a un lutto, come agisce il senso di colpa, cosa ci tiene legati alla vita? È un libro costruito sui vuoti (la morte di Giovanna, la scomparsa di Silvia). Ho cercato di raccontare, con delicatezza, qualcosa di quasi indicibile, di inimmaginabile, addirittura: la morte per suicidio di una ragazzina è un evento che non si può spiegare e resterà sempre irriducibile, opaco. Investita dalla perdita, Silvia non sopporta di parlare, di essere osservata, confortata. Le sembra che non esista conforto possibile per quello che è successo. Vorrebbe disfarsi della sua coscienza umana, farsi bosco. Eppure, oltre al dolore, sono umani anche la compassione, la cura tramite i gesti e le parole, l’amicizia, il bisogno di amore. A poco a poco lei lo riscopre.

Un altro aspetto che mi interessava molto era la costruzione di un personaggio non abituato a nominare i sentimenti, a parlare dei suoi dolori. È un tratto di mentalità collettiva, riassunto dai modi di dire comuni “non farla lunga” e “tiriamo avanti”. Del resto siamo tutti misteriosi, in una certa misura, elusivi persino per noi stessi. Scegliere di vivere, di ridare il proprio assenso alla vita, come fa Silvia, non è una questione di ragionamento o di comprensione. Dal bosco non si torna guariti. A volte, semplicemente, si torna”.  

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