Costume
Francesco Moser, dal record mondiale a Città del Messico al Trento doc
Il campione, oggi imprenditore di qualità nel campo dei vini, si racconta in una esclusiva intervista
Lo “Sceriffo” giusto? Perché?
Lo sceriffo sia per l’età (cominciavo ad essere tra i più anziani del gruppo) e sia per tenere a bada certe situazioni, talvolta delicate. E’ un mondo ove determinate circostanze umane non mancano; dalle proteste ai malumori, dagli attriti personali all’eccessiva smania di prevaricare. La competizione è spinta ai massimi livelli. Necessario che qualcuno facesse il Capitano, ruolo in cui ero abituato da tempo.
Ma andiamo al “duello” con Giuseppe Saronni, alla stregua di quello tra Coppi e Bartali. Ci racconti.
E’ stato l’ultimo dualismo importante nella storia del ciclismo. Adesso le rivalità (come le nostre) non vengono più focalizzate, perché in realtà non ci sono più. E’ cambiato tutto! Prima c’era stato tra Binda e Guerra, Bartali e Coppi, Gimondi e Motta. Saronni ha sei anni meno di me, giustamente cercava di battermi. All’epoca ero lo sfidante numero uno. Non le nascondo che tra noi c’era un abisso. Non c’è stato mai verso di andare d’accordo, troppo diversi. Agli antipodi sia come corridori sia come caratteri. Ci trovavamo ovviamente nelle varie corse, ma sempre ognuno al posto suo.
Come muta il ciclismo di oggi rispetto alla sua epoca?
Oggi la politica delle squadre è variata considerevolmente. I corridori vengono comandati dall’ammiraglia con le radio e devono fare quel che gli suggeriscono i direttori sportivi. Pagano bene, anche i gregari, ma guai se non fanno quello che gli si ordina. Noi eravamo diversi, decidevamo in corsa, seduta stante, in totale autonomia, padroni di noi stessi, non aspettavamo l’ammiraglia. Non c’erano radio o altro, magari quando si andava in fuga e arrivava l’auto la corsa era già decisa. Per non parlare della tecnologia, dell’abbigliamento, del tipo di bicicletta. Oggi il professionista ha tutto quello che gli serve. Mi ricordo i primi anni nostri, andavamo a correre con il freddo polare e con poca roba indosso. Nevicava, acqua tutto il giorno, tempo pessimo, un vero disastro. Il freddo entrava nelle ossa. Nel 1975, quando ho vinto il giro di Lombardia, è piovuto una giornata interna, a 10 gradi con continue salite e discese. Siamo arrivati stremati, non riuscivamo a stare in piedi. Ma anche in Belgio con la neve, piuttosto che nella Parigi-Roubaix o nella Tirreno Adriatico. Nevischio, sferzate di vento, acqua a catinelle. Un inferno. E poi, tanto per rendere più complicata la questione, avevamo pure le maglie di lana che si inzuppavano e si allungavano quasi fino alle ruote.
E poi c’è Eddy Merckx …
Già. Nel 1975 l’ho battuto in Belgio, era maglia gialla e in casa sua, a Charleroi. Diciamo che quello è stato l’ultimo suo anno, dopo è andato in calo come rendimento o, perlomeno, meno accettabile rispetto ai suoi soliti incredibili standard.
Lei Moser si è mai ispirato a qualcuno del passato?
Sia Coppi cha Bartali non li ho visti gareggiare. A intuito forse sarei stato Bartaliano, tra i tifosi, mettiamola così. Perché era il Direttore Sportivo di Aldo ed Enzo al Team San Pellegrino. Venne a casa nostra due o tre volte. Nel 1960 quando Coppi morì Gino doveva adempiere a quel ruolo nella S. Pellegrino. Ripeto, Coppi e Bartali non li ho potuti valutare in “presa diretta” per una questione anagrafica, ma se proprio devo fare un nome più che altro mi ispiravo forse a Merckx che, logicamente, oltre ad essere mio contemporaneo cercavo anche di avere la meglio su di lui, come poi è accaduto in alcune competizioni ufficiali.
Quando inizia il Moser imprenditore nel settore vitivinicolo?
Nel 1975 abbiamo deciso di imbottigliare il nostro vino. Ho sempre collaborato da decenni con mio fratello, poi ci siamo ingranditi nell’anno che ho smesso. Capitò l’occasione di acquistare altra terra e il maso in cui viviamo, ove si erge la cantina, alle porte di Trento.
Figli e nipote in azienda?
Sì, ho tre figli, Francesca, Carlo ed Ignazio. Matteo, mio nipote, è il nostro enologo ufficiale. Collaborano tutti a vario titolo, prima Francesca, ultimamente più Carlo. Ignazio invece ha corso nei dilettanti, è stato campione d’Italia, poi si è stufato. Aveva la stoffa e le caratteristiche per diventare un buon corridore. Non un fuori classe, ma sicuramente bravo. Tuttavia ci vogliono sia sacrificio che perseveranza. Talvolta bisogna lasciar perdere tutto il resto e mai arrendersi alle prime difficoltà. Altra generazione rispetto alla nostra, ma il mondo va avanti.
Un modo anche di incontrare persone?
Certo. Facciamo fiere, meeting, rassegne di settore. Ci vengono a trovare molti ospiti, per via sia del museo installato all’interno della struttura, con le bici le maglie e i trofei e sia per la visita alla cantina dove è possibile degustare ed acquistare i nostri prodotti. Con gli anni ci siamo fatti un nome cercando di migliorarci sempre di più, anche grazie ai riconoscimenti di un comparto molto competitivo, ma che non sono tardati ad arrivare.
Solo Italia o anche estero? Esportate molto?
Vendiamo di più in Italia. Il vino del Trentino non è molto conosciuto all’estero. Fuori confine sono assai noti i vini toscani, piemontesi e siciliani, meno i trentini. Dobbiamo farci conoscere. Comunque non demordo, sono stato in Belgio, in Francia, in Germania, anche negli Stati Uniti. Esportiamo ma in percentuale ridotta. Certo, se fossimo a Montalcino sarebbe tutta un’altra storia. Vado spesso a trovare i colleghi in Toscana, nelle Marche, in Abruzzo o in Sardegna e so bene come funzionano le varie realtà territoriali.
I vostri due o tre prodotti di punta?
Lo Spumante “Trentodoc”. Il 51,151 lo abbiamo concepito quando ho fatto il record dell’Ora il 23 gennaio 1984: 51 km 151 metri. Poi – dal 1984 – il “Rosé” con uve Pinot Nero e Chardonnay, il “Brut Nature” ancora più secco con il quale abbiamo vinto i Tre Bicchieri. Ma anche i vini bianchi fermi, tipo il “Müller Thurgau”, il “Riesling”, il “Moscato Giallo” (che ci ha dato tante soddisfazioni) e - sui neri - il “Lagrein” e il “Teroldego”, uno dei rossi più importanti del Trentino.
Chi sono i vostri clienti? Ci parla della produzione?
Ristoranti, enoteche, ma anche privati. Pensi che ogni anno lo finiamo sempre in anticipo. Stiamo aspettando di imbottigliare quello nuovo. Navighiamo attorno alle 150 mila bottiglie a stagione. Abbiamo venduto il vino sia quest’anno che l’anno scorso già per Natale. I primi di marzo imbottigliamo il nuovo perché prima va filtrato, raffreddato, operazioni delicate. Fine Aprile è il turno dello spumante, senza dubbio il nostro valore aggiunto! Da sottolineare che lo spumante va tenuto fermo dai 2 ai 6 anni. Ci vuole cura e un’attenzione particolare.
Come è strutturata l’azienda?
Da noi si chiama “maso”, una casa nella campagna. Ne abbiamo quattro, ristrutturate e rese perfette anche come appartamenti in Agriturismo per i soggiorni. In totale ci sviluppiamo su circa 15/16 ettari di nostra proprietà, poi comperiamo altra uva dalle terre confinanti e la vinifichiamo. Il prodotto è identico al nostro. Ora c’è un vigneto nuovo. Non produciamo tantissime bottiglie, ma quelle che facciamo sono un prodotto di qualità e nicchia, appoggiandoci ad una rete commerciale estremamente capillare.
Qualche news ancora top secret?
La Bici elettrica con il mio nome! Un progetto che vedrà la luce nel marzo prossimo. D’altronde il mio vecchio amore per la “sella” non mi lascerà mai, anche perché, oltre ai vini e all’azienda ho sempre partecipato in prima linea al Giro d’Italia. Da vent’anni sono testimonial della Mediolanum. Poche settimane fa ero al Teatro degli Arcimboldi di Milano per la presentazione della Maglia Azzurra e la celebrazione del ventennio di partnership tra “Giro d’Italia” e l’omonima Banca meneghina. Si è ricordata sul palco anche la figura di Ennio Doris. Come potrà capire non me lo sono perso uno di “Giro”, né da ciclista e protagonista né tantomeno da osservatore.
Complimenti e buona fortuna per tutto Moser.
Grazie, Ad Maiora!