Cronache

Caso Saman,“non erano buoni musulmani”. Ma nella moschea risse con spranghe

di Antonio Amorosi

C’è chi accusa la famiglia di Saman di non essere buoni musulmani. Per questo l’omicidio. Ma nella moschea vicino casa spuntati spranghe, bastoni e coltelli

A 15 minuti di auto dal casolare di Saman, la giovane pakistana scomparsa e molto probabilmente uccisa dai familiari per avere rifiutato un matrimonio combinato in Pakistan, c’è la moschea di via Cardinal Ferrari a Pieve di Guastalla, un’abitazione di due piani. Al piano terra il Centro culturale islamico della comunità pakistana e al primo l’abitazione dell’Imam.

La comunità islamica italiana è un mondo complesso e ricco di sfaccettature. In questi giorni tanti esponenti della comunità islamica italiana, quando non hanno attaccato le istituzioni italiane, si sono scagliati contro la famiglia di Saman Abbas, rea di non seguire i veri dettami islamici. Per un’arretratezza culturale familiare si sarebbe originato l’omicidio della ragazza. Ma quali sono questi dettami? Dove avrebbero dovuto trovare degli esempi da seguire?

A maggio i Carabinieri, con un decreto di perquisizione, si presentano a casa della famiglia Abbas ma non trovano nessuno, né i genitori né la ragazza (tornata dopo inviti ad una riappacificazione) e danno inizio alle ricerche della giovane, probabilmente uccisa e seppellita nei campi. Contemporaneamente iniziano anche gli interrogatori dei cittadini pakistani, residenti in zona, per capire se il possibile omicidio della ragazza si sia originato nella sola famiglia e se qualche informazione sia trapelata nella comunità. I Carabinieri stanno ancora cercando il corpo di Saman nella zona di Novellara. Ma il Centro islamico della cittadina reggiana ha un segretario di origini marocchine e il Centro sarebbe frequentato da pochissimi pakistani. Subito dopo l’esplosione mediatica del caso il segretario, Salaheddine Hichami, si è pronunciato con decisione contro le violenze. Ma sembra che in zona la comunità pakistana sia concentrata nell’altro centro, quello sito in via Cardinal Ferrari a Pieve di Guastalla, realizzato e frequentato solo da pakistani. Il Centro è a pochi chilometri di distanza proprio dal casolare dove abitava la famiglia di Saman.

Pieve di Guastalla è un conglomerato corposo di abitazioni e villini familiari da quasi 5000 abitanti. In mezzo è sorto nell’anonimato il Centro pakistano dove il 23 maggio c’è stata una delle solite riunioni.

Chi vive in zona, infastidito dalle automobili parcheggiate in modo selvaggio nei pressi, racconta che non è la prima volta che le sedute di preghiera del Centro degenerino in qualcos’altro. E i problemi in zona abbondano. Il 23 maggio è finita in scontri a colpi di spranghe, bastoni e coltelli. Almeno una trentina le persone coinvolte. Alle 21 i vicini chiamano i soccorsi, accorrono due ambulanze, un’automedica e diverse pattuglie dei Carabinieri. All’inizio 5 pakistani si rivolgono al Pronto Soccorso, ma col passare delle ore il bilancio dei feriti lievita fino ad arrivare a 17 persone, di un’eta compresa tra i 43 e i 60 anni, alle quali sono state diagnosticate lesioni guaribili dai 3 ai 30 giorni. Due fazioni litigavano a colpi di spranghe per la gestione della moschea e la scelta dell’Imam. Il Centro sarebbe stato costruito e comprato, come terreno, dall’intera comunità pakistana ma una non accetta più l’altra parte: le cronache locali descrivono uno scontro tra un gruppo più “intransigente” e uno più ‘morbido’.

E’ in questo Centro che la famiglia Abbas doveva trovare gli esempi da seguire per essere dei buoni musulmani? E abbandonare l’arretratezza? Non lo sappiamo. Né è possibile capire se la famiglia Abbas abbia lasciato tracce in questa comunità tali da far capire le proprie mosse. Certo è che la comunità pakistana resta un contesto molto chiuso che si muove in un modo non ascrivibile alle nostre cartine geografiche.

“Molti di questi pakistani sono anche integrati e bravi ragazzi, soprattutto i giovani”, spiega ad Affaritaliani.it Vincenzo Iafrate, consigliere comunale d’opposizione a Guastalla, “ma c’è un problema grosso: non si vedono le donne. Non si sa dove siano. Non esistono. E’ un mondo di uomini. Ogni manifestazione pubblica, anche quelle di condanna per la vicenda di Saman, ha questa pecca ed è un problema per tutti. Anche per noi italiani. La comunità deve accettare le regole del Paese dove vive. Le donne hanno gli stessi diritti degli uomini. Non è accettabile quanto vediamo”.

Dello stesso avviso la consigliera comunale di Novellara e di livello provinciale Cristina Fantinati: “Mettiamoci nei panni di questa ragazzina. E’ arrivata qua a 13 anni, fa 6 mesi di scuola e poi è chiusa in casa, reclusa. Chi conosce? Non si sa. Non socializza con nessuno. A 17 anni come era? Era una bambina, ingenua. Andava aiutata , accompagnata. Non si poteva mandare in quella casa... una bambina”.

 

 

… fine prima parte